martedì 16 marzo 2004
Gli sventurati sono egoisti, cattivi, ingiusti, crudeli e ancor meno degli stolti capaci di comprendersi l'un l'altro. La sventura non già unisce ma divide gli uomini e persino là dove parrebbe che gli uomini dovessero essere legati dall'affinità del dolore, si commettono molte più ingiustizie e crudeltà che fra la gente relativamente soddisfatta. Certo, il grande scrittore russo Anton Cechov (1860-1904) era segnato da una forte vena di pessimismo ma queste sue parole del racconto Nemici dicono una verità che fa quasi da parallelo, sia pure antitetico, a quanto abbiamo detto qualche giorno fa parlando del dolore. Si diceva infatti, che la sofferenza può purificare, risvegliare e animare la coscienza; essa ha quasi la funzione del crogiuolo che libera dalle scorie il metallo prezioso. Tuttavia è anche vero il contrario, soprattutto quando il dolore è torturante, umiliante, eccessivo. Esso può esacerbare lo spirito, rinsecchire le energie, offuscare la mente, deprimere la volontà. Scatta, così, quell'atteggiamento che Cechov ha descritto: si diventa spietati, cinici, egoisti, insensibili. Un altro autore, il tedesco Friedrich von Bodenstedt (1819-1892), osservava che «è un'illusione credere che la sventura faccia l'uomo migliore. Sarebbe come credere che la ruggine affili il coltello o il fango renda limpida l'acqua». Per questo, quando siamo davanti alle reazioni di persone sventurate, alle loro bestemmie o alla loro disperazione, dobbiamo trattenere ogni giudizio. La nostra situazione pacifica e normale ci impedisce di entrare nel loro tormento. Può essere persino difficile aiutarli e forse è necessario solo tacere ed essere accanto, dimostrando di non lasciarli andare alla deriva. E affidarli a quel Dio che ha capito anche l'urlo quasi blasfemo di Giobbe.
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