mercoledì 13 febbraio 2008
Amica di poeti e di pittori, cosmopolita, Annalisa Cima, pittrice e poetessa, aveva finora affidato i suoi versi a preziose e centellinate plaquettes, soprattutto scheiwilleriane: soltanto Ipotesi d'amore (1984) era nel catalogo Garzanti, con prefazione di Marisa Bulgheroni. Finalmente ecco radunate in unico volume le principali prove precedenti (prove riuscite) con il titolo Di canto in canto e dotto saggio introduttivo di Paolo Cherchi che ora insegna all'Università di Ferrara dopo quarant'anni di University of Chicago.
Abbiamo dunque lo strumento per una compiuta analisi dell'attività poetica di Annalisa Cima, finora presente nelle cronache letterarie soprattutto come destinataria delle poesie confluite nel Diario postumo di Eugenio Montale. Analisi che non possiamo contenere nelle 3.299 battute di questa rubrica, sufficienti tuttavia per stabilire alcuni punti fermi. Innanzitutto, nella poesia di Annalisa Cima non c'è nulla, ma proprio nulla, di montaliano: e questo va a suo netto vantaggio e a disdoro delle malelingue. Una cifra interpretativa preziosa troviamo nell'autocommento in postfazione alla riproposta del suo primo libretto Terzo modo (Il Melangolo, 2006), con quella postfazione di Montale che la giovane poetessa si era permesso il lusso di rifiutare, consenziente il poeta (si era nell'ottobre 1969).
Spiega dunque Annalisa Cima: «Il primo modo di affrontare il mondo è d'avere potere ed esercitarlo. E ciò induce inevitabilmente all'abuso. Il secondo è soggiacere al potere, essere chierici dei potenti. Il terzo modo invece è la fuga dal potere, ma anche dalla sottomissione ad esso, scegliendo come rifugio le arti e il dominio solo di se stessi». A questo programma l'autrice si è mantenuta fedele in tutta l'opera che oggi possiamo contemplare riunita: la ricerca di una interiorità "che è: realtà al disopra" (peccato per il refuso, forse l'unico del libro, a p. 32: "ineriorità"). E questo riconoscersi per trascendersi è lo stigma di Annalisa Cima, con filigranate aperture religiose solitamente inosservate. Chi ha orecchio, tuttavia, coglie «per risolverci a Lui se crediamo, / se vale, se c'è»; «tu continuerai a vivere perché / hai cercato un legame fra te / e l'extraterreno. Energia che ci fa / esistere; «seguaci di mille religioni, che / fanno capo a un solo Dio», fino a questo sorprendente lucchetto: «Il terzo modo per / distinguere A con- / siste nel rapporto tra / A e se stessi. A / si identifica, non si ha / alternativa, da / qui il monoteismo», e a questa dichiarazione di poetica: «Non vogliamo cadere nell'estetica / senza catarsi, purgati dalle / false metafisiche, più veri; / nell'immanenza un credo, nell'autodistruzione il ritrovarsi».
Siamo disposti a chiudere un occhio sul giovanile "traducianesimo" della poetessa, così come ci sembra eccessiva l'insistenza di Cherchi sull'erotismo (pudico) delle raccolte centrali del volume. Semmai, immagini bibliche di corpi e anime, di «metafisica e seme».
La nostra pedanteria si spinge a rilevare che i Quattro canti (1993) «del possibile», «del contingente», «dell'impossibile», «del necessario», non si dispongono in chiasmo contrariamente a quanto annota Cherchi: manca, infatti, l'inversione del costrutto. Chiasmo sarebbe: «possibile, contingente, necessario, impossibile».
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