giovedì 26 gennaio 2017
Sempre più spesso sento enunciare potenziali formule risolutive degli squilibri individuali e sociali basati sul rispetto delle regole o, a seconda dei casi, sul loro ampliamento e restringimento.
Sono sgomento. Tutti i giorni ci sono castigamatti che si appellano alle regole. I padri si appellano alle regole se i figli non si comportano come secondo loro dovrebbero, i politici si appellano alle regole quando qualcosa sfugge loro di mano, gli educatori di ogni sorta auspicano maggiore rigidità e severità. Con una aura di distacco e rimprovero che dà il senso di quale sia la reale empatia del loro atteggiamento.
Ovviamente nessuno considera realmente queste parole, che suonano più come rito autoassolutorio di uno stanco esercizio dell'attenzione all'uomo. Parole di superficie, di una dinamica che è opposta a quella dell'apostolato, prima che per i risultati, per il senso della sua metodologia.
La regola in se stessa non significa nulla. La regola in se stessa è molto simile a un concetto di assistenza che in realtà è profondamente disumanizzante. Donazione al povero che non tiene conto di ciò di cui ha bisogno, ma solo della propria irresistibile pulsione a mettersi in mostra. Il dono ha senso solo se è personale, intimo, attento.
Le regole sono come una pialla che elimina le asperità con un taglio indistinto. Non è questo vicinanza all'uomo, certamente.
Chi si appella solo alle regole non ha capito il problema, o non gliene importa nulla. Chi invoca le regole come unica soluzione dovrebbe sentire per primo la responsabilità di essere specchio di quella motivazione gioiosa, energica, entusiasta che permette alle regole di essere naturale conseguenza, pratica di attaccamento alla vita. Io di questi specchi non ne vedo tanti. Vedo più volti arcigni, chiusi in se stessi, concentrati sulle proprie cose, attenti al proprio esercizio di potere, colpevolmente distratti dall'amministrazione della pratica. Hanno dimenticato che la legittimazione non viene da una raccolta di codici in cui cercare la condanna altrui e la propria giustificazione, ma dalla autenticità dell'incontro. La umanità dell'incontro. Uno sguardo vicino.
Molto prima delle regole la necessità è innamorarsi, entusiasmarsi, intravedere la esaltante possibilità di ri-significazione della propria esistenza.
Gli appelli alle regole, se mai sono serviti, e ne dubito, oggi non hanno più senso. Perché abbiamo raggiunto il punto zero della percezione stessa di una motivazione, di una ragione per darsi delle regole. Punto zero anche della testimonianza. Quelli che invocano le regole appaiono come i prontuari farmaceutici, enormi e noiosi che nessuno legge, destinati alla indifferenza e al macero come gli enciclopedici elenchi telefonici del passato. Non accorgersi di questo denuncia la totale deprivazione sensoriale verso la condivisione autentica. Così totale da non lasciare altro che una stanca, logora ripetizione di richiami inutili e vuoti, dannosi. Meglio tacere. Meglio abbozzare un sorriso umano per l'umano, testimone di una vicinanza più che di un giudizio peraltro non richiesto.
La regola, il sacrificio, non devono essere imposti, pena l'allineamento a ogni altra ideologia. La regola e il sacrificio hanno senso se sono la naturale conseguenza di un moto di amore profondo, che ti cambia, e che incredibilmente non fa sentire come sacrificio quello che per i non innamorati, sacrificio lo è. Invece è affezione, devozione nel suo senso compiuto, misericordia verso se stessi e verso gli altri.
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