giovedì 8 febbraio 2018
Bruno deve compiere nove anni, ma sa già come si piega una giacca per tenerla sul braccio. Non ha l'età per i calzoni lunghi, né per la cravatta, però con la sciarpetta al collo fa la sua figura e assomiglia almeno un po' a suo padre, Antonio. Come sia possibile non si sa, ma basta uno sguardo – basta il dettaglio della giacca piegata sul braccio – per capire che in qualche modo il bambino è più saggio, forse addirittura più antico dell'adulto. Prima si è piccoli, poi si diventa grandi, o magari ci si prova soltanto. Serve altro per ammettere che, in realtà, non si smette mai di essere bambini?
Ladri di biciclette, diretto da Vittorio De Sica nel 1948 e vincitore dell'Oscar come miglior film straniero due anni più tardi, è più di un film. È un mondo nel quale si entra per non uscirne mai più. Dal punto di vista storico, l'universo nel quale veniamo introdotti è quello dell'Italia povera e orgogliosa del secondo dopoguerra. Ma non lasciamoci ingannare dall'equivoco del documento d'epoca. Qui De Sica – attore e regista di meravigliosa duttilità, capace di passare con un'alzata di sopracciglia dalla farsa al dramma, dal cantabile del giovanile Un garibaldino al convento ai sofisticati sottintesi letterari del Giardino dei Finzi Contini – compie un'impresa che ancora oggi, a settant'anni di distanza, lascia ammirati e sorpresi.
Trama semplicissima, labilmente ispirata all'omonimo romanzo di Luigi Bartolini e profondamente rimaneggiata da Cesare Zavattini, il cui apporto si rivelerà determinante per un altro capolavoro di De Sica, Miracolo a Milano, Palma d'Oro a Cannes nel 1951. Ma se quest'ultimo film è una favola moderna, con tanto di liberatorio volo finale tra le guglie del Duomo, Ladri di biciclette è realismo allo stato puro, senza nessuna concessione agli abbellimenti della fantasia.
A recitare sono attori non professionisti. Antonio, il padre, è interpretato da Lamberto Maggiorani: appena assunto come attacchino, viene derubato della bicicletta senza la quale rischia di essere licenziato. Bruno, il figlio, è il prodigioso Enzo Staiola: a lui tocca accompagnare Antonio nella ricerca disperata della bicicletta che Roma pare aver inghiottito nei mille traffici di cui si nutre una città ancora tramortita dalla guerra. A casa ci sarebbe anche la madre, impersonata da Lianella Carell, attrice per caso pure lei: un'Addolorata proletaria e tenerissima. Ma il baricentro del film sta nel rapporto tra padre e figlio, tra Antonio che ancora cede all'autoinganno dell'ottimismo e Bruno che, suo malgrado, sa già come andrà a finire, ma preferisce fare finta che abbia ragione il papà.
Un'odissea urbana livida e commovente, che ha uno dei suoi momenti più rivelatori nella scena della trattoria. Antonio ha uno schiaffo di troppo da farsi perdonare e Bruno ha fame, dopo tutto quel girare senza risultati. Entrano in un ristorante, si siedono vicino all'orchestrina che suona Tammurriata nera (una canzone dove tutto è fuori posto, a partire dall'allegria), ordinano una mozzarella in carrozza per uno e un litro di bianco da dividere in due, come se il vino a un bambino non facesse male. Come se si potesse, per un momento, illudersi che su questa terra non esista la sofferenza. Al tavolo accanto è seduto un ragazzino che di Bruno è l'opposto irridente. Azzimato e altezzoso, mangia in punta di forchetta, mentre l'altro, il piccoletto della Garbatella, si serve con le mani e addenta di gusto. Ma non è questo che importa. Tra Bruno e Antonio, tra il figlio e il padre, è in corso una gara silenziosa e fatale. Chi dei due si risveglierà per primo? Chi capirà prima dell'altro che anche lì, in trattoria, la realtà sta per imporre la sua legge? La mozzarella fila, intanto. Per aprire gli occhi c'è ancora un po' di tempo.
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