venerdì 25 novembre 2016
In un angolo d'oscurità, buttato per terra come uno straccio unto e bisunto, un uomo, reso vecchio dalla miseria, ma ancora giovane d'età, raggomitolato su se stesso, puzzava d'alcol e mendicava elemosina. Una banda di bambini di strada, nove, dodici anni, annusava colla e svelti come gatti randagi rubavano quel che riuscivano a strappare di dosso al malcapitato di turno, ma loro alla bambina più piccola della gang avevano già rubato la sua purezza.
In Koinange street, la musica si diffondeva nella via, mescolandosi al sapore amaro della birra e del whisky, e al chiasso dei clacson dei taxi che imploravano strada, mentre la discoteca «New Florida club» si riempiva di ragazzi e ragazze sorridenti. C'era la luna piena quella sera, nel cielo di Nairobi, e la vita sembrava ancora più bella, per un sabato notte di svago. Qualcuno gettò un misero scellino, che cominciò a ruzzolare lungo il marciapiede, andando a fermarsi troppo distante dal poveraccio ricoperto di stracci.
L'uomo si scosse, sostenendosi su gomiti callosi spessi e duri, si mosse come una biscia, per agguantare la monetina. Prima degli altri come lui, mangiato nel corpo dalla lebbra e nel sangue dalla malaria.
La musica africana, come il soukous, la rumba congolese, è regina delle serate danzanti nelle discoteche del Continente nero; pervade il corpo, lo scalda come fa il calore del fuoco che allontana il freddo dell'inverno, quando si vive in una grande metropoli posta a 1.500 metri d'altitudine, sull'altopiano che domina la grande fossa della Rift valley, e nelle baraccopoli si vive scaldandosi attorno a un braciere che arde con qualche pezzo di carbone e rari spicchi di vera legna.
Indossava pantaloni neri attillati sulle ossa sporgenti, e aveva una camicetta scollata su un petto senza forme, la mano reggeva un bicchiere di plastica colmo di birra; la ragazza somala era ubriaca già a inizio serata. Prostituzione, un mestiere che non subisce crisi, che non conosce recessioni, nelle grandi città del mondo dove si fa finta di non vedere povertà, fame, disoccupazione, e la solitudine delle periferie abbandonate e disadorne.
Per un'altra birra e per una notte di finto amore, domani la ragazza somala si sveglierà in una camera che non sarà la sua casa dove ad attenderla, molto probabilmente, c'è almeno già un figlio piccolo. Nella borsetta, unico vezzo alla moda, ci saranno un po' di soldi, dentro di lei, forse, anche una nuova gravidanza. Mentre sul suo futuro già è segnata una inappellabile sentenza.
La ragazza somala, i bambini della gang, vivevano in una delle tante livide e caotiche baraccopoli di Nairobi, distese di lamiere rugginose, avamposti della miseria e della fame, della povertà al lume di candela, senza acqua corrente, fabbriche di colera, di bambini orfani, terre fertili alla criminalità e alla violenza, e sempre di più satelliti malati che gravitano attorno all'esclusione sociale delle grandi metropoli che si tengono a debita distanza dai «malati».
A Nairobi, la vita quotidiana della strada e della sopravvivenza, era strettamente incatenata alla parola swahili kutafuta: cercare. Cercare qualcosa da mangiare, cercare un tetto sicuro sotto cui dormire, cercare le compresse della clorochina per la malaria, cercare un paio di scarpe usate. Cercare l'illusione di un momento di felicità. Cercare, come chiunque altro, la propria vita da vivere. Nel 1960 J.F. Kennedy parlando all'assemblea delle Nazioni Unite suggeriva, dando avvio al «Decennio dello sviluppo» di venire a capo entro 10 anni della miseria e della povertà nel mondo. Che allora, diceva il presidente ucciso a Dallas, colpiva i due terzi dell'umanità. Più di mezzo secolo è trascorso da quelle parole di speranza, eppure le ferite dell'essere umano, della Terra, restano aperte, tali e quali a sempre, tra miseria, disoccupazione, sfruttamento, carestie, guerre e malattie. Tante belle parole sono state sprecate e camion di soldi sono stati gettati in congressi, studi, intanto che quella ragazza somala moriva di Aids per non morire di fame. E intanto, «quelle» Nairobi si sono moltiplicate come un virus.
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