martedì 2 marzo 2021
A Roma e al Sud, immagino, è primavera conclamata. Ma a Milano è insolito questo caldo e questo sole, a fine febbraio, quando di solito la pianura è fredda, perfino gelata, e avvolta in una foschia come un limbo, un'immobile attesa. Invece mercoledì scorso all'alba, sopra Milano, che cielo. E che sole dalle finestre delle nostre case, a illuminare cortili da mesi umidi e ombrosi. Dai giardini, il tubare dei piccioni. Per strada gente con la giacca sbottonata, e ragazzi che se la toglievano – come paiono pesanti e fastidiosi i cappotti, quando l'inverno finisce. Ce ne andavamo in giro straniti, quasi colti di sorpresa da un amico che doveva arrivare, ma non tanto presto. Un po' imbambolati, sorridenti nel blitz di una prematura, insolente primavera. E i conducenti dei tram in maniche di camicia, e quando biciclette e monopattini li sfiorano avventatamente non si arrabbiano, non scampanellano furiosi. Perché? Sembrano come dentro una contentezza, come dentro una promessa mantenuta. Gelo, inverno, neve, Covid: eppure, è primavera. Naturalmente ogni milanese avveduto sa che il cappotto non si mette via prima di aprile, giacché ben si ricorda quel certo anno, che dopo Pasqua si tremava in una pioggia gelida. E tuttavia questa incursione di un sole rinato ci emoziona. In fondo, senza che ce ne accorgiamo pienamente, ci commuove. La promessa antica, ancora una volta, onorata.
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