mercoledì 17 aprile 2013
«Ètutto un farsi lingua il passato». È forse questa la chiave delle nuove poesie di Curzia Ferrari, Pietra (Aragno, pp. 232, euro 12), libro denso e spiazzante che viene a meno di tre anni da Lucertola (ancora Aragno). Sì, perché l'artista vive sempre di memoria (le Muse sono figlie di Zeus e di Mnemosyne), e il poeta è tale (Curzia Ferrari lo è) se la memoria, il passato, si fa lingua. Spiazzante è la versificazione di Pietra perché, mai prosastico, il dettato assume misure sostenute da un ritmo interno, perentorio, che non si snoda nella metrica, magari riservandosi qualche improvvisa e necessaria rima, preferibilmente interna: «Notti fosche, ribelli. Ancora mi turba / il tonfo nel buio cavedio / del corpo di Amelia Rosselli»; «E la fretta la fretta la fretta... / Io lavoro di notte a morire – / in maniera imperfetta»; «Non saremo più a maggio. Sembrava forte / come una quercia. Era solo un miraggio». Riaffiora il ricordo del marito, il musicista Domenico Ferrari, alle cui sigle, D.F., sono esplicitamente dedicate cinque poesie ma la cui presenza s'intuisce, in profondo, anche altrove. E, ad anni di distanza, contano piccoli particolari quotidiani, certe «babbucce con la suola di panno» spinte dentro la stanza, e «Come li stiro bene nella testa / i tuoi pantaloni pestati, senza piega!». Ormai, «tutto è compiuto, credimi, con precisione», ma resta un ritratto sullo scaffale e «dal cerchio dei tuoi occhiali celesti / ancora mi affligge la tua protezione». Salvatore Quasimodo, al quale Curzia Ferrari fu intensamente legata negli ultimi anni del poeta, è ormai una «voce d'ombra con qualche scheggia di smalto», ma persiste «sul cuore l'ecchimosi di un verbo che lega». Non manca il contrappunto dei paesaggi: Venezia ha diritto a due ballate, Milano è città dell'anima riconosciuta perfino a Taormina «per l'umido nebbiasco che fa tanto Milano», c'è il Brembo e c'è Pontedilegno, e le Dolomiti di Brenta sono lì, sotto la pioggia «color bottiglia». Né va dimenticato il lato sportivo, anzi, tifoso, di Curzia Ferrari, accesa milanista (nessuno è perfetto...), a suo agio nel «verde di San Siro ben stirato dal sudore», e «c'era il Paròn, l'Abatino, il Basletta...», con «Gullit, Reikard, Van Basten» che rispondono all'appello. La poesia che dà il titolo alla raccolta non illumina sulle intenzioni, ma offre un indizio importante: «Com'è rozzo il rotolare dei sassi scartati / per non aver creduto alla Parola». Ecco, con la guida della maiuscola, la Parola fa strada nella religiosità di Curzia Ferrari, e non solo per un esplicito Padre nostro, per un'Ave, e un Domine, non sum dignus, ma soprattutto per un «Tu vangelo / Tu lima, Tu subbuglio –/ tormento della mente – / pauper et humilis spiritu / dov'è la tua faccia / Altissimo Signore onnipotente», fino a un Venerdì santo («nel disagio – senza Lui d'essere nessuno») e a due poesie per la Pasqua 2012. Nonostante l'ampia e unica nota, il «tentativo di autobiografia» del poemetto Fumo resta criptico per un sovrapporsi di filtrati e perduranti sentimenti infantili all'episodio della fucilazione di un giovanissimo partigiano che aveva scambiato con la bambina un bacio tra le sbarre di un cancello, prima di diventare bersaglio in un poligono di tiro con altri dieci ragazzi. Libro complesso, Pietra è un talismano che apre porte del cuore e della mente, sfida perenne della poesia che vuole dire l'indicibile e si nutre del mistero che è in ciascuno di noi e intorno a noi, negli oggetti, nelle case, perfino in un gatto che muore: «Poi le morì il gatto. / Quando non si vedono più gli occhi / di un gatto – tante cose / cominciano a spegnersi».
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