mercoledì 9 maggio 2018
La notizia della morte di Ermanno Olmi ieri ha riempito le pagine dei giornali accendendo una luce su un mondo che non c'è più - almeno così hanno rilevato alcuni - che è la civiltà contadina. Lui viveva sugli Altipiani di Asiago, in una casa proprio vicino al mio amico Gianni Rigoni Stern, figlio di Mario, che avrà appreso la notizia mentre era a Srebrenica per portare avanti la sua "transumanza della pace", in quella terra martoriata che, quando l'ha vista, tanto gli ha ricordato i suoi, i loro Altipiani. Ecco, proprio la storia di Gianni, agronomo in pensione, che oggi dedica la sua vita a far rialzare la testa a un popolo al quale ha portato le vacche di razza Rendena, insegnato a costruire le stalle e presto inaugurerà un caseificio, mi ha fatto pensare quanto la civiltà contadina non sia affatto morta. E se le narrazioni di Ermanno Olmi vennero bollate come qualcosa di nostalgico, vien da pensare che invece la sua è stata un'eccezionale capacità di mettere in luce un valore, che non può sparire. È il valore del pane e della sacralità del cibo, della sopportazione, della gratitudine e della Provvidenza che ti viene incontro, per declinarsi spesso in una comunità o addirittura in quella parola desueta che si chiama popolo. Insomma quel mettersi insieme, come Gianni sta facendo a Srebrenica per ricreare un'economia a partire dal bene comune che è la terra. C'è poi un altro aspetto di Olmi che mi ha colpito ed è il racconto del silenzio, che è quel terreno dove succede l'incontro profondo con se stessi, quasi un aspetto che la società frenetica dei giorni nostri ha cercato di portarci via, mettendo in primo piano frivolezze e denari. Ma il silenzio è possibile, come è possibile accorgersi della Primavera, della natura che inizia ad esprimersi nel suo fulgore, quasi
per fare nascere ancora una volta uno stupore per quella che si chiama vita. Tutte queste cose Olmi le ha raccontate come regista, ma anche come uomo, lasciando quel segno nella storia contemporanea rispetto cui si possono fare due cose: la più stupida e la più intelligente. La prima è ordinare in una qualche categoria (artistica, umana, ideologica) un pensiero; la seconda è farsi una domanda su quale valore merita giocarsi la propria vita. È una domanda che non dovrebbe passare inosservata, ancor più oggi, in questa grave situazione di stallo istituzionale, dove sembra essersi smarrito il senso di un bene comune. La civiltà contadina nel nostro tempo c'è ancora: vive nell'impresa di tanti giovani, nelle famiglie e nelle nuove comunità che si sono formate dentro ai paesi della nostra campagna per nulla incustodita. Ma vive con modalità di espressione diverse dal passato. Comunque vive. Qualcuno si renderà conto che il protrarsi di un vuoto istituzionale può mortificare questa speranza?
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