venerdì 27 marzo 2009
Mettiamola così: Marcello Lippi non ha chiamato Cassano per vedere se Cassano, non convocato, invece di "pazziare" se ne sta zitto e buono in attesa di momenti migliori. Questa è l'unica versione accettabile - naturalmente solo "intuita" - del silenzio d'ordinanza deciso da Lippi quando ha praticamente detto che lui non deve spiegazioni di nulla a nessuno. Così non fosse, ci trovassimo invece davanti a un diniego totale e senza speranze, allora metterei in agenda un pensiero a futura memoria, di quelli maligni che si tirano fuori se l'avversario perde.
Perché alla fine, se permettete, questo è l'antico gioco che si fa con il ct della Nazionale da antica data: tu convochi gli azzurri e fai la squadra; io faccio il critico e dico se mi sta bene chi chiami e quale formazione mandi in campo: dopo la partita, sei hai perso, hai perso due volte; e io - critico "costruttivo" - ho vinto. Ma non ne godo perché in realtà quando l'Italia perde sul campo perdiamo tutti.
Peccato che Lippi non capisca questo dettaglio, ovvero il confronto di idee non selvaggio e aprioristico e neppure l'ostilità geopolitica: spesso, in passato, le convocazioni azzurre venivano contestate da questo o quel giornale, o radio, o televisione, in base a criteri puramente geografici/diffusionali; come dire che i media romani volevano in Nazionale romanisti e laziali, quelli piemontesi (e nazionali) soprattutto juventini (belli i tempi in cui anche il Toro forniva uomini alla patria pedata), quelli milanesi interisti e milanisti; Lippi, vincendo il quarto titolo mondiale per l'Italia tutta, è stato praticamente risparmiato da queste prevenzioni campanilistiche e gli resterebbe da gestire il più corretto dei
«Bar Sport», ovvero il luogo in cui si dibatte il futuro della Nazionale come interesse collettivo ritenendosi autorizzati a non esser d'accordo con lui.
Enzo Ferrari, che aveva un tormentoso rapporto con la critica che nulla gli risparmiava nonostante fosse l'unico vero "Grande Vecchio" dello sport italiano, ironizzava sulla maggioranza dei giornalisti, chiamandoli gli «ingegneri del lunedì», ovvero quelli che sapevano commentare vittorie o sconfitte solo a giochi fatti, non essendosi prima espressi nell'uno o nell'altro senso. Aveva più rispetto per chi le critiche le anticipava, spesso anche crudamente, ingaggiando una sorta di rivalità che lo divertiva e appassionava.
So che sto parlando di un personaggio straordinario e tuttavia voglio ricordare a Lippi che un bel giorno Ferrari raccolse in un piccolo preziosissimo libro, "Il Flobert", i ritratti - da lui vergati in ottima prosa e con ironia sottile o feroce - dei giornalisti amici e avversari (quorum ego). Non lo invito a scrivere libri, ma vorrei che tenesse presente, il ct un po' sentenzioso, che non tutti i critici sono uguali, e che esistono anche gli «ingegneri del venerdì».
Ma siccome ho molta stima di lui, gli offro una scappatoia: il suo antico precursore Vittorio Pozzo non solo rifiutava ogni critica ed era infastidito dalla sola presenza dei giornalisti, ma li tacciava di incompetenza e d'altri irriferibili difetti. Vinse due Mondiali, nel '34 e nel '38, e continuò a detestare e ad essere detestato, a ricevere consigli e a rifiutarli. Morendo lasciò in eredità alla famiglia l'ultimo atto di una dura disfida: una querela a Gianni Brera.
Insomma, caro Lippi, le giuro che se vincerà anche tra poco più di un anno il tombolone in Sudafrica, mi imporrò un rispettoso silenzio. Come diceva Alberto Sordi? «Boccaccia mia, statte zitta!».
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