sabato 28 febbraio 2004
Il Papa, vescovo di Roma, ha parlato in romanesco: "Semo romani", ha detto. Ieri qualcuno ha cavalcato la notizia. "La Padania", organo della Lega Nord, ha scritto che la cosa "è inquietante". Quieti, loro, da sempre, sdraiati placidamente sul letto del Po, si sono svegliati di soprassalto con un "corsivo" - che infatti corre a perdifiato - sulla prima pagina dell'"organo" di partito, fino all'interrogativo davvero bruciante e conclusivo: "Il Pontefice ha aggiunto un inquietante: 'Semo romani'. Cosa mai avrà voluto dire?" Hanno ragione o torto? Per una parte ragione: abituati al dialetto paesano non capiscono altre lingue, e del resto in Parlamento spesso si vede. Torto per un'altra: perché tra le parole romanesche scelte dal Papa quella è la più semplice. Lui è vescovo di Roma, che come tale è romano, da 2000 anni. Del resto Dante - che forse qualcuno della Lega conosce - ha detto "romano" anche Cristo. E allora? Allora viene il sospetto della "lumaca". E che vuol dire? Vuol dire che qualcuno alla Lega, stanco del proprio grigiore confinato nell'ombra dei "palazzi", sempre agli ordini altrui, invidioso di altri, anzi di tutti, cerca quando può a qualsiasi costo di arrampicarsi nella luce di quella che crede sia la storia, e lo scrive sulla prima pagina dell'organo di casa, attaccandosi a qualsiasi pretesto. È quello che del resto aveva già scritto Trilussa, vedi tu proprio in romanesco. Forse nella sensibilità di poeta presentiva che sarebbe arrivato quel corsivo, descrivendolo così: "La lumachella de la vanagloria/ ch'era strisciata sopra un'obbelisco,/ guardò la bava e disse: già capisco,/ che lascerò un'impronta ne la Storia".
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