sabato 14 dicembre 2013
Una piccola chiesa in mezzo alla città. Alcuni cespugli lungo il muro di cinta cercavano di fare da barriera all’odore di gas che usciva ininterrotto dalle macchine di passaggio. I battenti della porta, una volta chiusi, gettavano lontano le voci stridenti di queste ore che viviamo senza pause e senza respiro. Un Gesù bambino ai piedi dell’altare rimasto solo senza genitori perché non c’era stato tempo di completare il presepio, sembrava chiedere aiuto ai pochi presenti alla Messa del giorno. Dieci persone ai banchi parlavano tra loro in attesa del celebrante: «Già dieci anni? Sembra ieri che se ne è andato, poverino. Come passano veloci i giorni! E quanto ci si abitua a vivere anche senza quella presenza che sembrava indispensabile.» La vita, questa cosa che non sappiamo come descrivere se non come un’ansia profonda che ci impone di respirare, di parlare, di essere presenti a gioie e a decisioni, che ci fa sopportare lutti e sofferenze, prima di abbandonarci e fino all’ultimo ci tiene stretti, distribuisce ogni anno le palle d’oro degli alberi di Natale e ci racconta favole su un futuro cui cerchiamo di credere prima di lasciarla andare. Così nella piccola chiesa dove il pubblico cantava il gloria a ricordo dei propri cari ognuno rivedeva il viso di chi aveva perduto, per il quale aveva pianto. Allora non avendo un riscontro materialmente certo da tenere tra le mani se non per un racconto di fede, pregava quella folla di angeli dalle ali colorate, che abbellivano lo sfondo della chiesa, di lasciarli godere ancora un po’ di quel respiro caldo che regala il sonno la notte e la luce ogni nuova alba. Tutti all’uscita cercavano in fretta l’abbraccio e la carezza degli amici a riprendere l’aria di sempre, come a dire che i nostri morti sono al sicuro ormai, a noi tocca fare le spese per il pranzo di Natale, pensare ai regali per i figli e per i nipoti che hanno diritto ai loro giorni di festa. Molti anni fa, quando ero una bambina che cercava spiegazioni per ogni cosa, chiesi a una zia che mi spiegasse perché nell’Ave Maria che mi faceva recitare ogni sera si diceva “nell’ora della nostra morte”: «Quando è l’ora? E poi, come è la morte?» La zia non si perse di coraggio e mi raccontò questa storia: «Ricordi quel fiume che passa nel bosco? Un giorno si trovava sulla sponda un ragazzo che guardava l’acqua scendere veloce, ancora con il colore bianco del ghiacciaio. Si fece coraggio, ci mise i piedi poi, con un grido di vittoria, si gettò nell’acqua fredda e ridendo la attraversò fino all’altra riva. Più in fondo a valle un uomo dai capelli brizzolati pescava e con un sorriso di compiacenza riempiva il suo cestino guardando al fiume come a un fratello. Infine le acque si allargavano e una nonna dai capelli bianchi sdraiata nella sua barca si lasciava trasportare fino al mare. Il mare era azzurro e c’era il sole che dava luce alle piccole onde mentre sulle rive la gente, gli amici, tutti coloro che le volevano bene cantavano per lei, che andava con la piccola vela incontro a un mondo, come le avevano promesso, felice».
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