martedì 17 luglio 2018
Fosse ancora vivo oggi, si può star certi che Giorgio La Pira, di fronte ai presagi funerei che imperversano sull'Europa, prenderebbe in mano la sua frusta dialettica per contestarli e rovesciarli in una profezia di radioso futuro. Questa era infatti la caratteristica principale del politico siciliano dichiarato "venerabile" da Papa Francesco il 5 luglio scorso: vivere la speranza come virtù davvero eroica, proprio perché professata secondo il motto a lui più caro di spes contra spem, cioè aldilà di ogni ragionevole valutazione umana.
Dio sa quanto ci sarebbe bisogno, ai nostri giorni, di politici europei anche solo minimamente capaci di imitare lo spirito europeista di La Pira, anche sulla via della fiducia paradossale, quella che vede con chiarezza l'abisso del fallimento ad un passo, e tuttavia sa alzare la testa, rimboccarsi le maniche, rilanciare il cuore verso una metà in apparenza irraggiungibile. È vero, a uno sguardo realista ci si dovrebbe piuttosto preparare a gestire il domani di una Unione prossima a disintegrarsi, non certo a rinascere dalle ceneri. Eppure...
In un saggio dell'anno scorso per il quarantennale della morte del "Sindaco santo", Giorgio Campanini ha ritirato fuori un articolo pubblicato nel 1942 sul periodico fiorentino, "Vita cristiana". Al culmine della tragedia bellica in atto, in piena apoteosi dei totalitarismi, La Pira intravvedeva nell'ora più buia dell'umanità i segni di una storia resa "sacra" dall'opera della Redenzione, scorgeva gli indizi di una «gigantesca crescita di bene nonostante le ciclopiche opposizioni del male». Di lì a poco avrebbe avuto inizio la grande costruzione unitaria, ad opera di altri visionari come lui: De Gasperi, Adenauer, Schuman, Spaak, Bech, Mansholt, Monnet, Spinelli, persino Churchill (ebbene sì, erano più numerosi di quanto comunemente si pensi e neanche tutti credenti, anche se la maggior parte lo era con convinzione).
Ma la lezione lapiriana più importante per l'Europa odierna, viste le sue condizioni e le sfide che la attendono, sarebbe un'altra. Di fronte all'emergenza migranti, ad esempio, da lui verrebbe l'esortazione, pena la decadenza vera e irrimediabile, ad andare oltre se stessa, come del resto era nell'ispirazione più genuina e originaria dei suoi "padri" fondatori. Essi pensavano a un sodalizio di nazioni libere, capaci di proporsi come modello ad altri popoli in cerca di pace e di sviluppo, disposte a proiettarsi all'esterno, praticando il dialogo ed escludendo chiusure o arroccamenti.
La prova di questa convinzione, ai suoi occhi l'unica realistica, Giorgio La Pira la percepì e la evidenziò con lucidità dopo la conclusione della Conferenza di Helsinki sulla Sicurezza e la cooperazione in Europa. Ricordiamolo: si era ancora in piena "guerra fredda", quando il 1° agosto 1975 venne firmato lo storico "Atto finale" nella capitale finlandese, dopo due anni di negoziati che coinvolsero tutti i Paesi europei (Urss compresa ed esclusa solo l'Albania), la Santa Sede, gli Stati Uniti e il Canada. All'epoca l'allora Comunità Europea aveva solo nove membri, che aderirono con convinzione all'intesa sia come singoli che in forma unitaria.
A due mesi di distanza, da Varsavia dove si trovava per una sessione di lavori dell'Unesco, il Professore scrisse un testo dal titolo: "L'età di Clausewitz è finita". Ovverosia: nell'era nucleare la logica dei conflitti armati è "scientificamente" improponibile. E ripercorrendo tutte le sue audaci iniziative internazionali a partire dal 1951, concludeva: «Guerra impossibile, pace inevitabile». Oggi, mentre si affermano nuovi grandi protagonisti mondiali, stiamo a vedere quante voci si leveranno a dichiarare l'Europa non solo utile, ma indispensabile. Non tanto da salvare, ma da rilanciare. Non da tenere a bada, ma da porre in cima a qualunque obiettivo per il bene di tutti i suoi popoli. Tra un anno si voterà per il Parlamento di Strasburgo: chi sceglierà lapirianamente lo slogan «nazionalismi impossibili, unità inevitabile»?
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