martedì 11 settembre 2018
Quando domani mattina, alle 9 in punto, pronuncerà il suo ultimo discorso sullo Stato dell'Unione Europea nell'emiciclo di Strasburgo, si può scommettere che Jean-Claude Juncker si guarderà bene dal citare la conclusione del "caso Selmayr", l'ultima ingloriosa pagina di una presidenza della Commissione Ue, la sua, già ben poco memorabile. La vicenda è esplosa circa sei mesi fa, prima nei corridoi di Bruxelles e poi nell'Europarlamento, che aveva votato una severa censura contro l'Esecutivo e il suo numero uno. Infine, la settimana scorsa, il "difensore civico" dell'Unione, la irlandese Emily O'Reilly, ha presentato un rapporto di 39 pagine, con dentro un nuovo duro atto d'accusa contro Juncker e tutti i suoi colleghi. La Commissione, però, l'ha incassato con notevole faccia tosta, dandone in pratica una lettura assolutoria nei propri confronti.
Ma in che cosa consiste quello che molti media europei hanno definito il "Selmayrgate"? Il personaggio chiave è Martin Selmayr, tedesco quarantasettenne vicino ai Popolari, già portavoce di Barroso. Il 21 febbraio scorso, con un colpo di mano accuratamente predisposto, è stato nominato Segretario generale della Commissione, mentre fino a 24 ore prima era solo capo di gabinetto personale di Juncker. Già in quel ruolo si era guadagnato una fama di funzionario ambizioso e portato ad accentrare tutto il potere nelle proprie mani. Nel suo nuovo incarico di capo dell'intera "eurocrazia" comunitaria guida ora tutti i 32mila dipendenti del'"Palazzo".
La più accurata ricostruzione dello scandalo (è questo il termine più appropriato per chi vuole bene all'Europa) si deve proprio alla Ombudswoman O'Reilly, che in pochi mesi ha spulciato, fra molti ostacoli e controlli della burocrazia brussellese, la bellezza di 11mila pagine di documenti. È emerso anzitutto che l'intenzione di dimettersi del predecessore di Martin, l'olandese Alexander Italianer, era nota solo a Juncker e allo stesso Martin ed è stata tenuta segreta. Nei giorni precedenti alla riunione decisiva, erano poi state organizzate alcune nomine e rinunce, per consentire a Martin di presentarsi candidato alla carica di Segretario generale aggiunto: da semplice capo di gabinetto, infatti, non poteva arrivare alla carica suprema.
Arriviamo alla vigilia del 21 febbraio e il tandem Juncker-Martin informa il solo commissario al Bilancio, Günther Oettinger, anche lui tedesco, di quanto bolle in pentola. L'indomani il presidente della Commissione propone ai colleghi di nominare i due nuovi "aggiunti" del Segretario generale: Martin e Clara Martinez Alberola, guarda caso capo di gabinetto aggiunto di Martin. L'ok arriva unanime senza problemi, ma ecco il colpo di scena finale: il Segretario ancora in carica, Italianer, annuncia ai commissari le sue dimissioni e subito Juncker, fingendo pure sorpresa, chiede ai colleghi di nominare "sul campo" Martin nuovo Segretario generale, per evitare vacatio. Pur in un clima di sconcerto, la proposta è accettata senza obiezioni. Il tutto in cinque minuti.
Non ci vuole un segugio per fiutare un pessimo odore di combine. E in questa sede non interessa neppure capire il perché e che cosa si nasconda dietro il "patto di ferro" tra Juncker e il suo braccio destro. Nella sua requisitoria, la O'Reilly parla giustamente di manipolazione e di grave violazione «dello spirito e della lettera» dello statuto della funzione pubblica europea. Il tutto avallato dall'intera Commissione. E segnala con amarezza che il Presidente lussemburghese, il primo nella storia della Ue a ricevere il mandato diretto dagli elettori in qualità di "capolista" del Ppe (il famoso Spitzenkandidaten), proprio per contrastare l'immagine di un esecutivo di "boiardi" lontani dal popolo, ha guidato una incredibile «manovra tecnocratica». Un'ultima parola per Herr Oettinger, che nei giorni scorsi denunciava tra i nuovi "nemici dell'Europa" il governo italiano. Coprendo l'operazione, lui per primo non si è certo distinto come "amico" dell'ideale europeo.
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