martedì 4 aprile 2017
Fuori dal Comune... siamo tutti figliocci o nipotini del Machiavelli. Che infatti protestiamo veementi contro la "casta" o concludiamo in modo qualunquistico "tanto son tutti uguali"; che ci dichiariamo inossidabilmente democratici oppure propendiamo per l'"uomo forte"; che siamo di destra o di sinistra, cattolici o "laici", conservatori o progressisti: sì, il vecchio adagio del fine che "giustifica i mezzi" (falsamente attribuito al buon Niccolò) ci rappresenta un po' tutti.
Cosa vuole infatti il cittadino dalla politica, a tutti i livelli? Che "risolva". Che rimuova i problemi (possibilmente senza aggiungere troppe difficoltà alla già difficile vita...), dia risposte veloci e competenti, semplifichi, agevoli, produca, in una parola: che "faccia", esattamente come una fabbrica o qualunque altro settore dell'economia. E certo non è un'aspettativa sbagliata.
Quanto però al "come" di tale efficiente attività, diciamo che la pressione dell'opinione pubblica è assai meno esigente; o meglio: se ne preoccupa solo a posteriori, ogniqualvolta (e ahimé non sono poche...) scoppia uno scandalo sulla corruzione o le illegalità degli amministratori.
Si dice spesso che l'onestà è un "valore aggiunto", e in effetti sembra che in Italia sia letteralmente così; cioè: i valori principali sono altri (tra cui alcuni dei sunnominati), se poi si "aggiungono" pure la trasparenza e l'etica del comportamento, beh, non buttiamole via... Optional, contorni, abbellimenti, guarniture: comunque non ingredienti essenziali per la "vera" politica, quella appunto "del fare". L'importante è il risultato: non tanto il procedimento seguito per ottenerlo. Salvo poi scandalizzarsi non appena vengano alla luce gli altarini non proprio ortodossi davanti ai quali i princìpi sono stati sacrificati in nome del machiavellico "fine".
Esagerato? Non proprio. Qualunque amministratore locale è testimone della difficoltà a far digerire ai propri cittadini che la legalità ha un costo, per esempio quello stesso di certe (non tutte!) lungaggini burocratiche. È ovvio infatti che risulta più semplice e veloce affidare gli incarichi e le commesse secondo un rapporto fiduciario diretto o col puro criterio del prezzo più vantaggioso, come accade di norma nel sistema privato; ma altrettanto ovvio dovrebbe apparire che questo non è proprio il modo più indicato per evitare la corruzione. E dunque occorrono tutte le cautele (i bandi pubblici, la richiesta di requisiti, la trasparenza degli atti, i controlli successivi: e niente si può mai dire sufficiente) che appesantiscono le legittime attese degli utenti.
Si richiede dunque, in primis ai politici locali stessi, un esercizio di pazienza civica oggettivamente molto arduo: soprattutto in stagioni di "tutto e subito", nonché di decisionismo da "uomini della provvidenza".
Il rispetto delle regole (che "fanno perdere tempo"!) rischia infatti di venire scambiato per inettitudine, incapacità, pigrizia, inazione... E non è facile, incalzati dalle molteplici reali esigenze delle rispettive comunità, resistere alle sirene che invocano scorciatoie purchessia: che importa, per una volta! Che importa, se si raggiunge l'obiettivo!
Sarebbe bello invece potersi reciprocamente convincere che la legalità non è un prezzo pagato invano, che val la pena spendere tempo e risorse pubbliche perché – alla fine – da una società più onesta ci guadagniamo tutti.
Fior di statistiche, ormai, conteggiano a quanto ammonta il costo sociale della corruzione e della disonestà, ma questa cifra è ben lungi dall'essere penetrata nella consapevolezza comune. E raramente purtroppo la virtù crea consenso, questo solleticante ingrediente da cui il politico (a qualunque livello) fatica ad affrancarsi: così anche per lui quel che conta è sempre il solido, ambito, palpabile, machiavellico "fine".
r.beretta@avvenire.it
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