giovedì 4 aprile 2019
«Le persone che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo, sono quelle che lo cambiano davvero…». La frase è di Steve Jobs, uno che il mondo lo ha cambiato parecchio. E che non sarebbe mai diventato Steve Jobs se non avesse avuto quel desiderio. Quarantatré anni fa, proprio in questi giorni di aprile, insieme a Steve Wozniak, fondava a Cupertino, in California, la Apple: un'azienda destinata a fare la storia dell'informatica e della rivoluzione digitale. Se il cielo non se lo fosse portato via presto, oggi Steve Jobs avrebbe 64 anni, abbastanza per aver detto e fatto molte altre cose. Era un genio, non certo un santo. E non solo per quello che ha inventato, ma per i messaggi che ha mandato. Molto più preziosi di qualunque computer o telefonino cellulare marchiato con la sua mela morsicata che ci condizionano la vita.
Viene in mente questo rileggendo il suo celebre discorso all'Università di Stanford (12 giugno 2005). «L'unico modo di fare un gran bel lavoro – diceva agli studenti – è amare quello che fate. Se non avete ancora trovato ciò che fa per voi, continuate a cercare, non fermatevi. Come capita per le faccende di cuore, saprete di averlo trovato non appena ce l'avrete davanti. E, come le grandi storie d'amore, diventerà sempre meglio col passare degli anni. Quindi continuate a cercare finché non lo trovate. Non accontentatevi...».
Qualcuno ha scritto che, se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione alla felicità sulla terra. Credo sia proprio così, e lo dimostra il suo contrario: forse alla base della nostra apatia, di quel senso cronico di inutilità che ci prende spesso quando usciamo di casa la mattina, non ci sono solo le mille cose che non funzionano, ma anche un vuoto interiore, piccolo o grande che sia. E la mancanza di una certa idea di noi stessi come esseri unici e irripetibili che, per quello che siamo e per quello che facciamo, nel nostro piccolo il mondo un po' lo possiamo cambiare ogni giorno. Magari meno di Steve Jobs, ma ciascuno per quello che riesce, coltivando il proprio talento, rifiutando quella maschera di inadeguatezza che molti pensano di avere sempre addosso.
Una delle più grandi povertà del mondo è quella delle persone che non sono mai contente di nulla. Galleggiano nel limbo, non sanno mai se ridere o piangere, e nel dubbio non fanno né l'uno né l'altro. Non rischiano, non vivono, confondono la felicità con quello che desiderano senza apprezzare il bello e il buono che hanno a portata di mano ogni giorno. Invece è sempre valida e forte la convinzione che sia meglio la delusione rispetto al rimpianto, se non altro perché regala la consolazione di averci provato. E la consapevolezza di sapere che chi si accontenta forse gode, ma solo un po'.
Diceva di sé Steve Jobs: «Valevo oltre un milione di dollari quando avevo 23 anni, oltre 10 milioni quando ne avevo 24, e più di 100 milioni di dollari quando ne ho compiuti 25. Ma non era poi così importante, perché non l'ho mai fatto per soldi. Essere l'uomo più ricco del cimitero non mi interessa. Arrivare a sera dicendosi che si è fatto qualcosa di meraviglioso invece, questo è quello che conta per me». Ecco, se ognuno pensasse di poter davvero lasciare un segno del proprio passaggio, forse nel mondo ci sarebbero più bellezza e meno squallore. Invece, purtroppo viviamo foderati di disimpegno: ribellarsi è difficile, anche se sappiamo che la sfiducia porta al cinismo, e il cinismo alla rassegnazione. Quella che ci impedisce di pensare che possiamo fare qualcosa di grande e di unico, sempre e comunque. Anche se non siamo famosi, anzi, proprio perché non siamo nessuno. Noi però siamo quello che facciamo. Non serve essere scienziati: il talento è di tutti, nessuno escluso: quello che conta è accorgersi di possederlo, e riuscire a sognare cosa potremmo essere con la sola forza dell'impegno e della convinzione.
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