mercoledì 12 luglio 2017
«Giorno dopo giorno si è incominciato a capire che la lettura (soprattutto di fiction) e l'immedesimazione immersiva nel testo producono effetti positivi sull'umore degli individui, migliorano le capacità di comprendere le intenzioni degli altri, ci rendono più abili a predire un effetto da una causa, incrementano la creatività, cambiano i livelli ormonali nella direzione di un aumento dell'ossitocina (la “molecola morale” che ci aiuta a provare ciò che gli altri provano), della dopamina (che rilasciamo quando qualcosa rispetta le nostre aspettative), delle endorfine (che sopraggiungono quando ci risolleviamo da un dolore), eccetera eccetera» È la tesi del libro, molto ben scritto, di Stefano Calabrese, La fiction e la vita (Mimesis; pagine 186; euro 18,00), che spiega l'incidenza della lettura sulla fisiologia del nostro sistema cognitivo. Leggere fa bene, tanto che la lettura sembra spostarsi dalla casella della Cultura a quella del benessere e della Salute.
Calabrese è un professore che ama (o è costretto a) viaggiare, perché insegna Comunicazione narrativa nell'Università di Modena e Reggio Emilia; Semiotica presso lo IULM di Milano; Letteratura per l'infanzia nella Libera Università di Bolzano, nonché Comunicazione multimediale al Suor Orsola Benincasa di Napoli. Tra un treno, un aereo e l'altro trova però il tempo di documentarsi, perché la sua bibliografia letteraria e scientifica è sterminata, aggiornata e convincente.
Le narrazioni, e soprattutto la fiction, sostiene l'autore, sono dunque responsabili del bene più prezioso che l'homo sapiens conosca: la capacità di immaginare ciò che non esiste. La fiction stimola il pensiero controfattuale, cioè la ricostruzione del passato nel presente attraverso rappresentazioni alternative a quanto già avvenuto (controfattualità), e facilita l'elaborazione di ipotesi nella dimensione del futuro (prefattualità).
In ogni caso, la lettura agisce sul corpo, e nel capitolo “Lettore maschio, lettore femmina”, Calabrese taccia di «autentico flop scientifico», la dilagante bibliografia sul gender, dalle cui «macerie poco è emerso». Decisive, invece, le ricerche dello psicologo di Cambridge Simon Baron-Cohen, che ha identificato due tipologie di cervello: cervello di tipo E (empatico-femminile) e cervello di tipo S (sistemico-maschile). È questione di dosaggio del testosterone, come ha mostrato lo studioso Norman Geschwind, secondo cui il testosterone, prodotto dai testicoli e dalle ghiandole surrenali e quindi presente in misura minore anche nelle femmine, influenza fortemente lo sviluppo cerebrale: «A nessuno piace immaginare che il maschile e il femminile siano frutto di una volgare secrezione endocrina», conclude Calabrese, «ma tant'è: l'ipotesi endocrina appare altamente probabile», e, almeno statisticamente, il pensiero e il comportamento maschile o femminile si riscontra nei soggetti di sesso genetico e genitale rispettivamente maschile o femminile, al netto di manipolazioni di ingegneria genetica. Tra i vari apporti del libro, molto interessante l'analisi di Madame Bovary (1857), il romanzo di Gustave Flaubert che diede luogo a una fitta corrispondenza fra i lettori e l'autore. I lettori volevano sapere che cosa ci fosse di vero in quella storia e chi fossero i veri protagonisti. Flaubert aveva un bel dire che tutto era frutto della sua fantasia, ma in effetti una base riconoscibile c'era, e ci furono episodi di immedesimazione anche tragici: Eleanor, la figlia di Karl Marx, traduttrice in inglese di Madame Bovary, si ucciderà con l'arsenico nel 1898, a 43 anni. Che cosa si aspettano i lettori che rivivono in proprio le vicende romanzesche? Risponde Calabrese: «Pretendono di vivere in un romanzo già scritto perché vogliono sapere in anticipo come la storia va a finire. Un oroscopo! Solo cento anni dopo, quando ci accontenteremo di divenire più predittivi e andremo a lezione dal romanzo per capire il segreto della vita, allora sì, solo in quel momento la fiction genererà potenza cognitiva, benessere, salute».
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