giovedì 1 marzo 2018
Estremo frutto del genio di Francois-René de Chateaubriand, la Vita di Rancé, composta nel 1844, quando il grande scrittore francese era ormai prossimo alla sua dipartita, continua a riproporci, qui e ora, il tema eterno e sempre nuovo del carattere dell'uomo religioso: in quale modo solitudine e partecipazione dovrebbero poter convivere nella medesima esistenza? In fondo si tratta di una riflessione che riguarda ognuno di noi. Armand-Jean Le Bouthillier de Rancé a trentasette anni diventa monaco trappista istituendo la sua Sparta cristiana ma non può evitare di trascinarsi dietro gli ardori appena trascorsi che Chateaubriand lascia intravedere quando affascinato li scopre così: «Dio non ha ordinato a tutti gli uomini di lasciare il mondo; ma non c'è alcun uomo cui Egli non abbia proibito di amare il mondo». Torna alla memoria come un lampo improvviso il consiglio di restare in famiglia che, all'inizio dei Fratelli Karamazov, padre Zosima rivolge ad Alioscia, il quale avrebbe voluto entrare in convento: «Sei più necessario laggiù. Lì non c'è pace… Dovrai sopportare ogni cosa prima di ritornare qui». Entrare in azione là dove già siamo, senza usare come alibi interiore quella che don Lorenzo Milani, con l'arguzia beffarda che lo distingueva, definiva «l'isola del mai-mai».
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