mercoledì 31 gennaio 2018
Forse oggigiorno la circolazione delle idee avviene più facilmente (o quasi unicamente) attraverso piccoli libri, brevi saggi accessibili alla vertiginosa mancanza di tempo di cui tutti soffriamo, anche se la sofferenza non sempre è avvertita. I grossi tomi restano a lungo intonsi sugli scaffali e, del resto, il solito Karl Kraus già agli inizi del secolo scorso costatava: «Chi leggerebbe i libri di storia se non gli storici mentre correggono le loro bozze?».
Ottima, dunque, la strategia della collana “Piccoli Fuochi”, diretta da Ilario Bertoletti per la Morcelliana, che in poche pagine dà visibilità ad autori che conviene conoscere e allinea testi come Monoteismo e distinzione mosaica dell'egittologo Jan Assmann (Premio Balzan 2017), le Favole di Kierkegaard, Tradurre la Metafisica di Aristotele di Enrico Berti. L'undicesimo e per ora ultimo “Piccolo Fuoco” (non è un focherello) è Diotima. Fra antica Grecia e nazismo, di Marie Luise Kaschnitz, per l'attenta cura di Lucia Mor (Brescia 2017, pagine 64, euro 7,00).
Kaschnitz, poetessa e scrittrice, è poco nota in Italia (nulla avviene per caso) benché vi abbia soggiornato negli anni 1926-1932 e 1952-1956, e sia morta a Roma, settantatreenne, nel 1974. Era sposata con l'archeologo viennese Guido Kaschnitz von Weinberg funzionario dell'Istituto archeologico tedesco di Roma.
Il sottotitolo “Fra antica Grecia e nazismo” non riguarda, evidentemente, Diotima, ma l'autrice stessa, che pubblicò il saggio nel 1941 in piena guerra mondiale. Kaschnitz faceva parte di quella che è stata chiamata “emigrazione interna”, cioè di quegli intellettuali che non affrontarono direttamente il nazismo, pur nel dissenso. Un atteggiamento analogo a quello dei nostri ermetici che non esaltarono, benché sollecitati, le “glorie” del regime, rifugiandosi nella preziosità della scrittura. Col senno di poi, e con un po' di coda di paglia, Salvatore Quasimodo scriverà: «E come potevano noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore […] Alle fronde dei salici, per voto, / anche le nostre cetre erano appese, / oscillavano lievi al triste vento».
Con forte autocritica, dopo la guerra Kaschnitz ammetterà: «Non abbiamo stampato volantini di nascosto in cantina, non li abbiamo distribuiti di notte, non abbiamo fatto parte di gruppi di resistenza che sapevamo che c'erano, ma non lo volevamo sapere davvero. Meglio sopravvivere, meglio esserci ancora, continuare a lavorare quando l'incubo fosse finito. Noi non siamo politici, non siamo eroi, noi facevamo qualcosa d'altro. Quel qualcosa d'altro ci faceva resistere, lui [Guido, il marito] la scienza, la storia delle strutture artistiche del Mediterraneo, me la riscrittura dei miti greci, le mie poesie, e più tardi la biografia del pittore francese Gustave Courbet».
La Diotima di Kaschnitz non è la Diotima che nel Simposio di Platone insegna a Socrate quello che in seguito verrà designato – più o meno correttamente – come “amore platonico”, bensì è la Diotima del romanzo di Friedrich Hölderin Iperione (1797-99), personaggio nel quale il poeta trasfigura il suo amaro amore per Susette Borkenstein Gontard. In Hölderin, Diotima è l'ancoraggio della sapienza terrestre che insegna l'amore all'irrequieto Iperione, il quale però finisce per seguire l'istinto maschile all'azione e alla lotta e si slancia nella guerra dei greci contro i turchi. Diotima muore di dolore credendo morto Iperione, ed egli, appresa la notizia, vagherà per il mondo finendo per concludere i suoi giorni da eremita nell'amata Grecia. Forse alla decisione più o meno inconscia di Kaschnitz di riscrivere il mito di Diotima ha contribuito l'invettiva contro i tedeschi che si legge nel romanzo di Hölderin. Kaschnitz non lo cita direttamente, ma nel romanzo c'è: presso il popolo tedesco «cresce la sottomissione e con essa l'arroganza, l'ebbrezza aumenta insieme alle pene, l'opulenza cresce insieme alla fame e all'ansia per il cibo, la benedizione di ogni anno diviene una maledizione e gli dei fuggono». Alludere, sia pure indirettamente, a queste considerazioni nel 1941, forse entrava nella strategia dell'“emigrazione interna”.
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