mercoledì 10 febbraio 2016
Ernst Wiechert era già uno scrittore famoso quando, l'8 maggio 1938, fu arrestato per aver espresso solidarietà al pastore luterano Martin Niemöller che si era opposto all'antisemitismo nazista e per questo, nonostante fosse stato assolto nel processo, fu deportato prima nel lager di Sachsenhausen, poi in quello di Dachau.Wiechert fu incarcerato per qualche settimana a Monaco di Baviera, poi il 4 luglio fu deportato a Buchenwald e rilasciato a fine agosto. Ne uscì fiaccato nel fisico e nel morale. Il suo dovere di scrittore gli impose di lasciare testimonianza della tragedia «per la memoria dei morti, per la vergogna dei vivi, per ammonimento dei posteri». A ridosso degli eventi, nel 1939, scrisse dunque La selva dei morti, cronaca di quell'orrore. Seppellì il manoscritto in una scatola metallica, e lo diede alle stampe nel 1946, a Zurigo. Morì nel 1950 a Stäfa, in Svizzera.Il diario-documento fu subito pubblicato da Mondadori (1947) nella traduzione di Lavinia Mazzucchetti, grande germanista, regina dei traduttori. Il libro viene ora riproposto da Skira (pagine 128, euro 14,00. Postfazione di Eileen Romano) con questa insolita avvertenza: «La traduzione si basa sulla versione di Lavinia Mazzucchetti del 1947, che è stata ammodernata» (questioni di copyright?).La lettura è sconvolgente. Wiechert scrive in terza persona calandosi in Johannes – «tale sia il nome di colui che agisce e patisce in questo libro» –, senza lirismi, senza moralismi: la realtà, nuda e cruda, è riportata nell'esatta eloquenza dei dettagli, superiori a ogni fantasia: «Johannes coglieva tutto, come uno specchio. Non voleva lasciarsi sfuggire nulla e nulla dimenticare. Gli pareva di essere giunto fin lì per potere un giorno testimoniare davanti a un tribunale che ancora non conosceva, ma davanti al quale ogni parola avrebbe avuto il suo peso».Wiechert era nel contingente dei prigionieri politici, con il contrassegno rosso, ma il trattamento non era diverso da quello dei delinquenti comuni o degli ebrei: trasportare pietre, far rotolare tronchi, scavare nel fango, sempre sotto la sferza dei sorveglianti, senza riguardo per gli anziani e per i malati, bastonati con più gusto. Vere e proprie torture, flagellazioni su corpi denutriti legati al “cavalletto”, prigionieri appesi per i polsi agli alberi con le braccia legate dietro la schiena. Non si ha il coraggio di trascrivere oltre.Scrive Johannes-Wiechert: «Ciò che era accaduto lì non si era svolto come nella guerra tra uomini. E neppure tra servi e padroni, ma soltanto fra carnefici e vittime. Il popolo era passato per un setaccio e la pula aveva avuto il predominio sul grano. Il vento di Dio era divenuto vento del demonio».Tuttavia, anche in quell'inferno sopravviveva qualche spiraglio di solidarietà. Intellettuali, operai, comunisti, ebrei, omosessuali, delinquenti, tutti sotto il giogo, eppure tutti uomini: «Che importava al campo che l'uno credesse una cosa e l'altro un'altra? Lì ogni uomo aveva nostalgia di un uomo, e la loro comune nostalgia si volgeva poi verso la libertà. Non forse tanto verso la liberazione dai ceppi materiali, quanto verso una restaurazione della dignità umana, in qualunque credenza essa dovesse sfociare».Mentre la dignità umana veniva sadicamente calpestata come forse mai prima lo era stata nella storia, Johannes-Wiechert «seppe con certezza incrollabile che quel Reich sarebbe crollato, non in un anno, forse non in dieci anni, ma certo in un lasso di tempo umano. Doveva disgregarsi e frantumarsi in modo da non lasciare traccia. Lo avrebbero distrutto col fuoco al pari di una piaga e ne sarebbe restata soltanto l'orrenda cicatrice. Non esiste civiltà che si possa costruire sul sangue umano. Si possono erigere sul sangue o sulla violenza degli Stati, ma gli Stati furono sempre castelli di carte per il vento dell'eternità. Ciò che sopravvisse fu fondato dagli altri, non dai carnefici o dagli assassini. E neppure dai generali». La civiltà nasce dallo spirito, dall'amore, dalla bellezza, è costruita da chi, come Wiechert, ne è testimone.
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