mercoledì 16 marzo 2016
Hanno l'aria di essere stati scritti in contemporanea con gli eventi o le vicende dei personaggi, e poi ripresi e aggiornati, i testi di Stefano Malatesta raccolti in Quando Roma era un paradiso (Skira, pp. 144, euro 15), ma non ci sono date segnaletiche. Nel ritratto di Jannis Kounellis, però, si legge che il fortunato protagonista dell'«arte povera» «a 74 anni mantiene l'aspetto e il vigore di un marinaio greco di lungo corso»; dunque, essendo Kounellis del 1936, aveva 74 anni nel 2010, sei anni fa, pertanto il testo è abbastanza recente.Però i primi capitoli sulla Roma dell'immediato dopoguerra e sulle vicende della pop-art italiana degli Anni Sessanta restano intrisi dell'aria del tempo, non possono essere stati redatti oggi sui ricordi, devono essere stati recuperati da antichi appunti e semmai rielaborati. Si dirà: che c'entra? C'entra e non c'entra (o centra e non centra) perché il libro resta un bel libro, ma con un'aria strana, un po' di cronologia non guasta mai. Con qualche imprecisione: a p. 92, per esempio, si legge che «la mostra, accompagnata dalle canzoni di Tenco, Senza fine e Lontano nel tempo, fu un successo di critica e di pubblico». Ma Senza fine è notoriamente di Gino Paoli, non di Tenco che ha scritto Lontano lontano, e non Lontano nel tempo.Malatesta (Roma, 1940), inviato di Panorama e di Repubblica, è scrittore di viaggi, arti e letteratura, empatico in ciò che scrive, dunque affascinante di lettura. Le pagine sulla Roma del 1943-45 contengono osservazioni pertinentissime, magari attribuendole alla giornalista Janet Flanner, colpita dal senso di colpa dei tedeschi postbellici, mentre «il senso di colpa come modo di confrontarsi con la realtà era totalmente sconosciuto agli italiani: non solo erano allegri, ma sembravano essere stati colti da una irrequietezza frenetica».E sulla gente di cinema che continuava a dichiararsi comunista anche dopo la dissoluzione del Pc italiano, ecco la riprova: «Quello che avevano praticato e vissuto, anche intensamente, non era il comunismo, ma un modo di sentirsi nel giusto senza andare a controllare le fonti». Le notazioni sull'ambiente artistico e letterario romano sono tempestive e trafiggenti, come la frecciata silurante verso Bernard Berenson, il venerato maestro che dai Tatti, la sua villa fiesolana, proclamava dogmi sulla pittura del Rinascimento italiano, marchiato da Malatesta come «l'esempio più classico di come si può turlupinare una massa imponente di studiosi, accademici, giornalisti, scrittori e dare di sé un'immagine esattamente contraria alla realtà». Berenson «veniva pagato da Lord Duveen cinquantamila sterline l'anno per mettere l'expertise a quadri che senza la sua firma non sarebbero mai stati venduti e che Duveen rivendeva in America a 50 volte il prezzo d'acquisto».Impagabile il ritratto di Pico Cellini, implacabile scopritore di quadri falsi che avevano tratto in inganno critici gloriosi come Ranuccio Bianchi Bandinelli e Roberto Longhi. Pico condivideva il giudizio di un giornalista che sul Times aveva scritto: «Gli autentici Corot sono circa 800, di cui diecimila stanno in America». Malatesta trae fuori dall'oblio Germano Lombardi, «straordinario personaggio che ha attraversato la letteratura italiana come un corsaro abbordando sempre le navi sbagliate». Ne avevo un ricordo vago e sono andato a rileggere negli atti del convegno di Palermo del «Gruppo 63» il contributo di Germano Lombardi, racconto onirico di un déraciné perfettamente rispecchiato nel resoconto che Malatesta tratteggia del funerale parigino dell'amico, nel 1993.Per quelli della mia generazione (più o meno la stessa di Malatesta) il libro rievoca ambienti e personaggi che fanno parte del vissuto personale, sui quali aleggiano il brio frizzante di Irene Brin (benché citata una sola volta) e la moralità disincantata dell'inarrivabile Ennio Flaiano. E davvero «la Roma di oggi sembra così lontana da quella di ieri, così diversa da far pensare che quella che abbiamo conosciuto era una Roma inventata».
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