venerdì 5 giugno 2015
Non tutti avranno visto un singolare film svedese di queste settimane, che vale invece la pena di vedere. Si intitola Forza maggiore ed è diretto da un regista sui quarant'anni, Ruben Östlund, sicuramente influenzato dall'opera di Ingmar Bergman ma altrettanto certamente preoccupato di parlare a un pubblico vasto, di non rinunciare alla comunicabilità per la profondità. Non è però di estetica (in versione cinematografica e svedese, cioè anche nordica e “protestante”) che questo film stimola a parlare, ma in quella dei suoi contenuti e, se vogliamo, del suo “messaggio”. Forza maggiore tratta di una famigliola media e normale, di un ceto medio e normale – genitori sui quaranta, due figli sotto i dieci. Sono tutti appassionati sciatori in vacanza per cinque giorni sulle Alpi francesi, in un super-residence quasi fantascientifico. Proprio il primo giorno una valanga, apparentemente sotto controllo, precipita sulla terrazza-ristorante dove i quattro stanno mangiando e godendo del paesaggio. Niente di grave, il controllo ha sbagliato di poco, ma nella confusione e nel buio della neve, che sembra dover travolgere tutto, mentre la donna si fa addosso ai figli l'uomo taglia la corda. L'istinto di sopravvivenza è stato più forte di quello della paternità. Ne consegue, negli altri quattro giorni in crescendo, una crisi che coinvolge anche una coppia di amici, una crisi in cui l'uomo si sente messo sotto accusa e infine crolla, si confronta con la sua debolezza. Un nuovo pericolo comune ricostituirà alla fine l'unità, i quattro+due in mezzo ad altri, in una marcia verso il domani accomunati dallo stesso sentimento di insicurezza e di fragilità, e dunque di solidarietà. Alcuni temi emergono fortemente già da questo minimo riassunto: la fragilità di tutti di fronte alle possibili catastrofi e la necessità di far fronte comune, di non sentirsi soli nella nostra miseria; la differenza di comportamento dell'uomo e della donna, l'uomo più vile della donna in molte situazioni; la forza che l'istinto di sopravvivenza può avere nelle nostre reazioni, anche – almeno nel maschio – nei confronti della prole; eccetera. Come si vede, non sono temi da poco e possono riguardare tutti, in un'epoca così insicura come è la nostra. Eppure il regista crede fermamente nella necessità della solidarietà e della comprensione e nella necessità del perdono e del sostegno in rapporto ai cedimenti dell'uno o dell'altro membro, soprattutto all'interno della coppia, della famiglia. Siamo deboli (soprattutto gli uomini, dice il regista) ma è infine l'esperienza, anche dolorosa e rivelatrice, di questa debolezza propria o del coniuge (o, per estensione, dei genitori e dei figli) a dover unire e non dividere. La necessità di comprendere le altrui debolezze e la necessità del perdono, che però implichi un cambiamento, una forza nuova del piccolo gruppo basata sulla constatazione dei limiti di uno dei membri, perché il piccolo gruppo – e cioè la famiglia – ritrovi forza da questa unione.
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