mercoledì 9 ottobre 2013
C'è un rinnovato interesse, in Italia, per le opere di María Zambrano (1904-1991), filosofa e scrittrice spagnola in esilio dal 1939, che soggiornò a Parigi, a New York, in Messico, a Cuba e che dal 1953 al 1964 visse e scrisse a Roma, prima di trasferirsi in Svizzera. Rientrò in Spagna nel 1984, accolta con gli onori che meritava. Assai opportuna la pubblicazione nella Bur degli scritti sulla pittura di María Zambrano, Dire luce (Rizzoli, pp. 304, euro 12), a cura di Carmen Del Valle, con un saggio di Davide Rondoni, direttore della collana. Assai scrupolosa la traduzione di Carlo Ferrucci. Zambrano ha il passo dell'elzevirista, una scrittura liricheggiante che alterna presentimenti illuminanti a descrizioni diaristiche difficili da ricondurre a un sistema di pensiero unitario. Nell'ampia premessa, la curatrice si impegna a trovare un midollo filosofico nel periodare di Zambrano, ma destreggiandosi tra metafora e simbolo, sogno e veglia, immagine e poesia, al dunque diventa tautologica, come quando scrive che «l'ontologia zambraniana è accompagnata da un ampio progetto etico e metafisico». Del resto, nella bio-bibliografia si legge che negli anni romani Zambrano frequentò «Elena Croce e Cristina Campo, ma anche Elémire Zolla e Victoria Guerrini» (Cristina Campo e Vittoria Guerrini sono la stessa persona). Coglie nel segno, invece, Davide Rondoni quando spiega che «la filosofa che insegue la pittura lo fa perché è segnata dall'amore come conoscenza. Su questa strada interviene con violenta precisione e con intuizioni sorprendenti sulle origini della pittura, come sui fenomeni a lei più prossimi». Zambrano, peraltro, è assai felice quando, sulla linea della «distruzione delle forme», chiama l'impressionismo «pittura di fantasmi, di spettri», e il cubismo «pittura di ragione», mentre l'espressionismo «parte non dall'oggetto, ma dalle sue radici in me; non si situa nell'oggetto già fatto, ma piuttosto nell'oggetto nel suo farsi». Però, quando commenta «La tempesta» dell'«enigmatico pittore Giorgione», vede in quella figura femminile «una dea che sta allattando il bambino», mentre Neri Pozza in Processo per eresia (1970) aveva avuto la folgorazione narrativa di immaginare che Giorgione identifichi nella «Donna della Dalmazia» che casualmente lo assiste mentre muore di peste, proprio «la donna nuda che allattava il puttino» che il pittore «aveva sorpreso dietro un cespuglio, poco lontano da Castelfranco, nel boschetto di Abele». Un ricordo che gli era rimasto impresso sino alla fine dei suoi giorni. Il punto è che Gertrude Stein aveva ragione quando scriveva (nel 1937) che Picasso, di cui aveva costruito la fortuna critica, apprezzava Dalì «perché Dalì come lui e vale a dire Spagnolo basa tutto sulla propria ignoranza, ricevono una bella ispirazione ed è basata oh sì è basata sull'ignoranza, sulla loro ignoranza», e «l'ignoranza spagnola può diventare un centro perché rinsecchisce ma non diventa mai molle o marcia». Ciò spiega, almeno in parte e al riparo dalle generalizzazioni, perché la Spagna ha cresciuto grandi pittori, grandi poeti e romanzieri, danzatori di flamenco e qualche musicista, ma non filosofi: tutt'al più, emozionanti saggisti come Ortega y Gasset di cui María Zambrano è stata allieva. Ciò non attenua il piacere di leggere le accensioni liriche di Dire luce, che aggiunge 24 saggi di Zambrano ai 15 di Luoghi della pittura, pubblicati da Medusa nel 2002, a cura di Rosella Prezzo, la quale aveva annotato che «nella pittura della Spagna, così povera di luce filosofica, Zambrano coglie la luce di una visione che "per quanto pura e alta, riposa sempre sul fondo originario del sentire corporeo"».
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