giovedì 9 febbraio 2017
Un tempo i fratelli Grimm, oggi le chimere della utopia tecnologica declinate nelle forme più fantasiose. Nell'epoca della destrutturazione di una categoria narrativa così fondamentale per l'uomo come la favola e del cinismo ostentato più che effettivo sulla capacità dell'uomo di creare mondi altri (cinismo che è al tempo stesso manifestazione del mondo in cui si vive), le epiche del digitale e posthuman ne diventano il sostituto.
Coscienza possibile della macchina, intelligenza artificiale autogenerante, androidi sempre più copia dell'essere umano, innesti biotecnologici di ogni tipo... Tra tutto ciò mi interessa in particolare l'allucinazione secondo cui la realtà che viviamo è parte di una simulazione di un non ben definito megacomputer gestito da altri non meglio definiti esseri superiori. Ipotesi considerata recentemente non solo da alcuni fisici teorici ma anche da menti brillanti in vari campi del sapere.
Alla base vedo due pulsioni contrastanti. Da un lato la perversione di immaginarsi non esistenti in se stessi se non come informazione altra, dall'altro il riconoscimento che l'incredibile fine tuning dell'universo in cui viviamo non può che venire da una alterità potente, in qualche modo superiore e perfetta, che nell'immaginario favolistico contemporaneo viene tradotta nel mega computer.
Immaginare una simulazione perfetta è caratteristica di un modo di pensare così umano che il megacomputer o l'essere superiore che lo manovra, non è altro che un umano più perfetto, ma pur sempre umano. Questa logica è una scatola da cui è impossibile pensare “fuori dalla scatola”.
Negare l'essenza del proprio essere per decretarne la sostanziale finzione significa negare anche la possibilità di immaginare alcunché, compresa la possibilità della propria derivazione da una prosaica esecuzione di algoritmi.
Comunque si pensi il megacomputer o l'essere “superiore”, o entrambi se lavorano in tandem, sono a nostra immagine e somiglianza. La ragione è praticamente tautologica. Noi immaginiamo l'essere alieno superiore che attraverso un mezzo tecnologico incredibilmente evoluto crea il nostro mondo come simulazione o gioco. Ma lui, che noi immaginiamo secondo i nostri parametri, per creare la simulazione attinge certamente a frammenti della sua stessa realtà. Per definizione stessa di simulazione. È inevitabile quindi che la nostra essenza, pure simulata, sia immagine imperfetta dell'esemplare campione di realtà dell'essere/computer superiore alieno.
Si capisce dunque come tutta la teoria sia priva di ogni logica realmente accettabile, posto che non si entri nei termini di una adesione fideistica.
La necessità di concepire di essere immaginati da un esterno non è altro che la declinazione della perenne percezione dell'uomo di necessitare di un compimento, tanto irraggiungibile quanto urgente. Compimento altro, ma fatto di regole intimamente legate al proprio reale esperienziale. Scritte dentro la stessa carne dell'esistenza.
Queste teorie sono cosi articolate che prevedono anche una serie di possibili sistemi per accorgersi della simulazione di cui si è parte, proprio mentre la si vive.
Ad esempio il glitch, che è un particolare difetto nelle immagini riprodotte digitalmente. Interferenza che permette di capire che il mondo cui si assiste è digitale. Ma il parallelo è privo di senso. Il difetto non è solo l'elemento costitutivo del reale, ma è la garanzia della sua possibilità di evoluzione. Il difetto rappresenta la genialità per eccellenza della perfezione dell'universo. L'universo esiste perché è costantemente in difetto. Quindi semmai il difetto, il glitch, è ciò che ci permette di comprendere che siamo reali, che siamo essenza e non simulazione. La aspirazione a una narrazione che porti altrove è profondamente umana. Il processo pernicioso in queste nuove modalità è che il racconto porta verso una autonegazione dell'uomo nei confronti di un suo prodotto, come la tecnologia. Per una fascinazione confusa ma assetata di significato, qualunque esso sia. I racconti sono sempre stati un modo per portare “oltre”, ricchezza della esistenza stessa, non negazione. Una negazione dimentica del fatto che HAL 9000, il computer di 2001 Odissea nello spazio finisce per spegnere insieme a se stesso anche la tensione vitale dell'uomo.
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