domenica 1 settembre 2019
Fa tenerezza sentire capitani d'industria, dirigenti, genitori e perfino politici parlare di mia azienda, mia famiglia, mio partito, mia patria. Perfino rispolverare un termine desueto, che galleggia gagliardo in qualche scuola di formazione sociale di qualche diocesi ardita, o in qualche seminario di economisti e sociologi di ispirazione cattolica: bene comune. L'espressione stuzzica poco o niente gli elettori famelici, quelli altresì sensibili eccome all'interesse individuale, magari solo evocato per pudore: se io ci guadagno e altri ci perdono, bene. Se ci guadagniamo tutti ma io ci guadagno un po' meno, male.
Tutto ruota, gioca, s'impenna nobilmente o s'inabissa spregevolmente attorno a "io" e "mio". Non è certo una cosa nuova, di questi nostri tempi magnifici e sciagurati. Anzi è questione antichissima. Non a caso ne è convinto messer Berlicche, uno che ha esperienza e malizia da vendere. Chi conosce Clive Staples Lewis e le sue Lettere di Berlicche sorriderà. Lewis – professore a Oxford, prima ateo poi convertito, appartenente alla "Chiesa alta" anglicana – s'inventa un Inferno simile a un banale ministero o a una grande azienda terreni, con i suoi funzionari e gli agenti sul territorio. L'alto funzionario Berlicche impartisce saggi consigli al nipotino Malacoda, inesperto delle cose umane. Le lettere sono in realtà un trattato di antropologia da leggere alla rovescia (come traviare un giovane londinese e spedirlo dritto all'Inferno). Una di queste lettere, la numero 21, si sofferma proprio sul pronome possessivo "mio".
«Il senso del possesso deve in generale essere incoraggiato», suggerisce Berlicche, che non si tiene sul generico ma scende nel concreto: «Noi riusciamo a produrre questo senso del possesso non soltanto per mezzo dell'orgoglio, ma per mezzo della confusione. Insegniamo loro a non far caso ai diversi significati del pronome possessivo, alle differenze sottilmente graduate che vanno dalle "mie scarpe", attraverso "il mio cane", "il mio servo", "mia moglie", "mio padre", "il mio padrone", e "la mia patria", fino al "mio Dio". Gli si può insegnare di ridurre tutti codesti significati a quello delle "mie scarpe", al "mio" della proprietà». Amaro e trionfante è Berlicche quando conclude: «Abbiamo insegnato agli uomini a dire "il mio Dio" in un senso non molto diverso da "le mie scarpe", cioè: il Dio sul quale ho dei diritti per i miei segnalati servizi e io sfrutto dal pulpito, il Dio che mi sono accaparrato"».
L'inganno è compiuto e funziona, come molti inganni, innanzitutto con chi vuole farsi ingannare. "Mio" è parolina ma anche parolaccia. La mia fidanzata o il mio fidanzato, mia moglie o mio marito, la mia famiglia: se sono coloro a cui appartengo e mi metto a disposizione, è parolina. Se sono di mia proprietà, a mio servizio esclusivo, da usare, consumare ed eventualmente cambiare, allora è parolaccia. Lo stesso vale per la mia parrocchia o la mia comunità: sono la parrocchia e la comunità che io servo, generosamente, o di cui mi servo, per la mia miserabile gloria e vanità, magari dietro un'apparenza di dedizione che inganna perfino noi stessi?
Infine ci sono il mio partito e la mia patria. Patria... La servo o me ne servo? Sono pronto a farmi da parte, quando è evidente che il mio tempo è compiuto, o non mollerò mai l'osso, ormai spolpato, a costo di distruggere tutto? Attorno al monosillabo "mio", innocuo e minuscolo solo all'apparenza, si compiono i destini della mia vita e del mondo intero. E il bene comune? Quello appartiene al pronome "nostro", da cui Berlicche si tiene saggiamente lontano, perché avrebbe solo da perderci.
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