martedì 21 aprile 2020
Il coro dei consapevoli si allarga ogni giorno di più e cresce per intensità e autorevolezza delle voci. È il coro di chi è convinto che il mondo sta davvero cambiando radicalmente e che nella storia umana si sta aprendo una pagina nuova. Come scriverla dipende da noi e, da come la scriveremo, deriveranno per tutti i popoli più o meno pace, maggiori o minori sofferenze, migliori o peggiori condizioni di vita e di salute.
In questo coro le voci europee risuonano con tonalità tutt'altro che unanimi, oltre che flebili. Neanche le parole spese dal Papa nel messaggio di Pasqua, neppure quel suo “speciale pensiero” rivolto al nostro continente, hanno raccolto commenti pubblici di particolare rilievo. Eppure il messaggio era diretto e inequivocabile: dal modo in cui affronterà questa sfida l'Unione deciderà non solo il futuro proprio ma anche quello del mondo.
È su questa associazione strettissima fra noi europei e il resto del pianeta che scarseggiano riflessioni adeguate, con proposte concrete ma audaci quanto occorre. Anche le menti più lucide e aperte stentano a immaginare ricette innovative. Perfino un Macron inedito, che parla oggi di “shock antropologico” e predica “umiltà”, non va oltre la pur apprezzabile proposta di moratoria al debito dei Paesi poveri, del resto accolta senza troppe esitazioni dal G20, in nome del principio che il Financial Times ha riassunto in un suo bel titolo: “Conviene essere egoisti e consentire la riduzione del debito”.
La verità, in linguaggio bergogliano, è che “per ritrovare se stessa l'Europa ha bisogno di uscire da se stessa”, deve andare molto aldilà dei suoi confini, proiettarsi come mai prima nella sua storia verso l'esterno. Ma non per “vendere”, non per esportare maggiori quantità di prodotti o i propri modelli di vita. Tantomeno quei valori consumistici improntati all'individualismo esasperato che l'“uragano Covid” ha investito con inusitata durezza.
L'idea di poter superare la crisi in atto per ritornare al tran tran precedente è per fortuna ormai patrimonio di pochi illusi. Ma la Ue sappia che, seppure gli attuali contrasti nord-sud sugli strumenti da usare per fronteggiare la crisi venissero superati, fosse pure all'insegna di una maggiore solidarietà interna tra i “27”, non ne verrebbe automaticamente la garanzia che l'emergenza “storica” sarà alle spalle. Occorre un enorme salto di qualità e una risposta senza precedenti, come la temperie che stiamo attraversando.
Da dove cominciare? Per esempio dalle cifre. Due settimane fa la presidente della Commissione Ursula Von der Leyen ha annunciato che l'Unione donerà 15 miliardi di euro ai Paesi poveri, Africa in testa, per aiutarli a combattere la pandemia. Sembrano tanti soldi. Ma in quegli stessi giorni le fonti di Bruxelles stimavano che l'insieme degli interventi comunitari per superare la crisi interna in atto e quella successiva toccherà i 3mila miliardi. Ai partners africani e di altre aree svantaggiate doneremo, dunque, lo 0,5 per cento di quanto spenderemo per noi.
Fossi un cittadino africano direi: non prendeteci in giro. Quei 15 miliardi, per dare sul serio l'idea di un'era nuova per l'Europa e per il mondo, va moltiplicata almeno per venti. Con 300 miliardi, un euro ogni 10 spesi per gli europei, si può aprire una prospettiva vera di collaborazione e di pace, avviare un dialogo sincero e fecondo, raffreddare le tensioni e costruire sicurezza e benessere per tutti. In fondo, è l'antica usanza giudeo-cristiana – accolta in parte anche dall'islam – della “decima”. Nella quale chi la incassa non riceve un dono, vede soddisfare un suo diritto. Un'utopia? Un sogno “in stile La Pira”? Ma se non ricominciamo a sognare, e a farlo come il santo sindaco di Firenze, chi ci salverà?
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI