giovedì 21 giugno 2018
Da quando il cinema esce dai teatri di posa, i luoghi in cui un film viene girato assumono un'importanza sempre maggiore. Il paesaggio non è soltanto lo sfondo del racconto, ma una delle condizioni necessarie perché una determinata storia possa esserci restituita in tutta la sua drammaticità e complessità. Per l'Italia uno di questi luoghi è stato il Polesine, come ci ricorda Cinema!, una bella mostra che si può visitare fino al 1° luglio presso Palazzo Roverella a Rovigo (catalogo Silvana, a cura di Alberto Barbera). Da Ossessione di Luchino Visconti (1943) e Il grido di Michelangelo Antonioni (1957) fino a molti titoli del compianto Carlo Mazzacurati e al recentissimo Made in Italy di Luciano Ligabue, sono molti i film nei quali al delta del Po viene riconosciuto un ruolo di protagonista, forse anche per via di quell'intermittenza fra terra e acqua che sembra alludere alla sostanza misteriosa e a volte perfino minacciosa della natura.
Tra le molte pellicole rievocate in mostra, una merita particolare attenzione. Si tratta di Paisà, diretto nel 1946 da Roberto Rossellini con la collaborazione, tra gli altri, di Sergio Amidei e del giovane Federico Fellini. Capolavoro riconosciuto del neorealismo, Paisà fu realizzato con una tecnica che integra l'invenzione narrativa in una rigorosa ricostruzione documentaristica, ma non fu girato interamente in Polesine. Solo il sesto e ultimo episodio del film è ambientato nelle paludi di Porto Tolle, vale a dire nel punto più settentrionale di questa disincantata epopea collettiva che prende le mosse dallo sbarco degli Alleati in Sicilia nel luglio del 1943 per poi risalire a Napoli e a Roma, a Firenze e all'Appennino emiliano.
In ciascuno di questi casi, il legame con il luogo in cui la vicenda si svolge rimane decisivo. Come spiegava lo stesso Rossellini, la sceneggiatura di Paisà fu improvvisata tappa per tappa, facendo tesoro delle testimonianze raccolte per le strade e nelle piazze di un'Italia ancora ferita dagli sconquassi della guerra. Il risultato è un racconto tutt'altro che celebrativo, segnato in filigrana dal tema dell'incomprensione, evidente fin dal quadro iniziale: il sacrificio della popolana Carmela, che cerca inutilmente di fermare una pattuglia tedesca, viene infatti equivocato dai soldati americani, persuasi di essere stati traditi proprio dall'eroica Carmela. Un meccanismo in parte simile a quello che ritroviamo nell'episodio romano, nel quale un altro militare statunitense, Fred, non si rende conto che la prostituta che ha seguito controvoglia è in realtà Francesca, la ragazza di cui si è innamorato appena arrivato nella capitale (il personaggio è interpretato da Maria Michi, uno dei pochissimi volti noti coinvolti nel progetto di Paisà).
In alcune occasioni, fortunatamente, l'incomprensione viene superata di slancio. A Napoli il furto commesso dall'orfano Pasquale è perdonato dal poliziotto Joe e anche la disputa teologica sollevata dai frati che ospitano in convento tre cappellani americani (di cui uno solo, impersonato dall'attore Bill Tubbs, è cattolico: gli altri due sono rispettivamente un protestante e un ebreo, con grande scandalo dei religiosi) si risolve grazie a un espediente di francescana semplicità. Purtroppo non sempre è possibile un lieto fine. A Firenze, in particolare, l'infermiera inglese Harriet non riuscirà più a trovare l'uomo che ama. Ma è tra le nebbie del Po che la tragedia conosce il suo momento più alto, con l'inutile sfoggio di cavalleria che l'ufficiale tedesco riserva ai prigionieri alleati, mentre già si prepara una terribile rappresaglia contro i “banditi” partigiani. La guerra finirà di lì a poco, annuncia la voce fuori campo del narratore Giulio Panicali. L'importante, adesso, è che vinca la pace.
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