martedì 29 gennaio 2019
Viene da lontano, da molto lontano nel tempo, la tesi secondo la quale per costruire l'Europa bisogna per forza partire dall'asse fra Parigi e Berlino, tesi rilanciata fra grandi contestazioni e polemiche dalla recente firma del trattato, ad Aquisgrana, da parte di Emmanuel Macron e di Angela Merkel. Risale addirittura al dicembre 1951, quando, si può ben dire, il sangue sparso sulle due sponde del Reno durante l'ultimo conflitto mondiale non aveva ancora finito di asciugarsi. Pochi giorni prima di Natale di quell'anno, fu addirittura Charles De Gaulle ad affermare che «fare l'Europa comporta un'intesa tra la Francia e la Germania, perché questa intesa sarà la base della Confederazione europea, altrimenti la Confederazione non avrà una base, e cioè non esisterà».
Per il grande generale transalpino, dopo i trionfi militari e politici dell'immediato dopoguerra, si stava chiudendo un anno di delusioni e di sconfitte elettorali, che lo avevano spinto da poco al ritiro della scena pubblica e alla scelta di scrivere le proprie memorie nella quiete della sua residenza privata, a Colombey-les-Deux-Eglises. Ma quella convinzione di una liaison necessaria fra i due ex nemici irriducibili non l'abbandonò mai. Tanto meno quando, sette anni più tardi, una Francia scossa dai disastri militari in Indocina e dal ribollente pentolone algerino lo richiamò al vertice, dandogli pieni poteri e accettando la sua riforma presidenziale che inaugurava la Quinta Repubblica. Nel frattempo era nata a Roma l'Europa "a sei" per l'economia e i mercati, dopo che proprio i governanti parigini a lui succeduti avevano silurato i tentativi di dar vita a una unione anche sul terreno politico e militare (la Ced).
Fin da settembre di quel cruciale 1958, De Gaulle avviava nei confronti del presidente tedesco Konrad Adenauer un assiduo corteggiamento, personale e diplomatico, che sfocerà nel Trattato dell'Eliseo del 1963. Ancora in piena guerra fredda, il leader francese coltivava un precisa disegno geopolitico, all'insegna di una grandeur nazionale perseguita anche con la dotazione di un armamento nucleare di rapido impiego (la famosa force de frappe). Ma l'idea originaria di legare i popoli francese e tedesco per farne il pilastro comunitario scaturiva, a quel punto forse soprattutto, da un desiderio crescente di affrancamento dal "protettorato" degli Stati Uniti sull'Europa attraverso la Nato e da un'ostilità allo "spirito atlantico" che il Generale non perdeva occasione di manifestare.
In questo atteggiamento anti-Usa, che la guerra del Vietnam e il clima degli anni '60 riassumevano nello slogan "yankee go home", De Gaulle intercettava un modo di pensare molto diffuso tra gli intellettuali e nell'opinione pubblica d'Oltralpe. Non solo a quel tempo. Ancora una decina di anni fa è uscito anche in Italia «Il nemico americano», un ponderoso saggio dello storico Philippe Roger, che di questo "umore" nazionale, in apparenza inspiegabile e paradossale (mai nella storia ci sono stati conflitti tra Francia e Stati Uniti) esplora in più di 500 pagine ogni dettaglio.
Si può capire meglio, dunque, perché anche nei mesi precedenti alla cerimonia di Aquisgrana siano volate parole grosse fra Macron e Trump. Aldilà dei precedenti illustri, c'è tutta tutto un sentimento nazionale che giustifica certi risvolti di quella firma. Per l'attuale inquilino dell'Eliseo, tuttavia, lo scenario esterno è assai meno rassicurante che per De Gaulle. Nel "grande gioco" del mondo globalizzato il peso di Parigi, sia pure in tandem con Berlino, è sempre più destinato a diminuire a fronte di attori di ben altro calibro. Conveniva proprio a Macron e Merkel seminare nuove divisioni e sfiducia nell'Unione?
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