martedì 9 giugno 2015
Il 30 maggio 1973, a Belgrado, ho visto la mia prima finale di Coppa dei Campioni, Juventus-Ajax: segnò Rep al 4’, per i bianconeri non ci fu più nulla da fare; proprio come accadde dieci anni dopo ad Atene, il 25 maggio del 1983, quando fu Magath a sorprendere Zoff, dopo otto minuti, e la sconfitta juventina fu dolorosissima, ventimila tifosi accalcati all’aeroporto sembravano i resti di un esercito sconfitto. Lì nacque il famigerato partito degli “Amici di Magath” che fece infuriare Boniperti e inaugurò le italiche sceneggiate anti-juventine. Fui poi al maledetto Heysel, nell’85, la Juve si aggiudicò la Coppa insanguinata che fu posta in bacheca senza alcun trionfalismo e quei 39 morti chiusero anche le bocche nemiche, salvo essere ricordati come un insulto, più tardi, da cialtroni travestiti da ultrà. Finalmente festa grande nel ’96, con la squadra di Peruzzi, Conte, Vialli e Del Piero. Festa juventina, naturalmente, proprio perchè a Roma, luogo del suo trionfo, la Capitale non partecipò compatta ai caroselli, come seppe invece fare nel 2006 quando la presenza di Totti fra i campioni del mondo sdoganò Del Piero e i suoi fratelli bianconeri. Dopo la seconda Coppa, erano ormai maturati i tempi dell’antijuventinismo feroce, becero, sostanzialmente antisportivo, e la vita calcistica in diretta aveva assunto aspetti insopportabili, anticamera di una violenza che ci avrebbe esposto alle critiche dell’Europa. Inutile tentare di convincere i tifosi - come facevo nei giornali che dirigevo - che “questa sera la Juventus è l’Italia”. Pura retorica: per molti, in quelle sere, la Juventus è sempre stata la Nemica e l’ho ribattezzata, per lenire la pena, l’Odiamata. Dopo le stagioni d’oro della Coppa dei Campioni, la rabberciata Champions League l’ho praticamente snobbata, le finali me le sono viste in tivù. Come l’altra sera, quando la vittoria del Barcellona è stata festeggiata in Italia anche con cerimonie smargiasse e oltraggiose, cariche di un odio feroce. A me sabato sera è andata bene: ho visto la partita nell’oratorio di una parrocchia a Cerfignano, nel Salento, e senza nulla concedere a un buonismo d’accatto devo dire che mi sono divertito perchè i tanti ragazzi riuniti con i famigliari davanti al maxischermo non erano tutti juventini e il tifo era separato, ma non per odio: molti indossavano la maglia del Barça e invocavano Messi, come gli altri Tevez e saltavano su estasiati per le parate di Buffon. Alla fine, una pizza per tutti, digerita insieme alla chiara supremazia dei blaugrana, senza lacrime bianconere nè derisioni. Ho sentito un ragazzo dire: «Pirlo ha pianto perchè va via dalla Juve». Poi, tutti insieme a goderci i saluti, gli abbracci fra vincitori e vinti: amichevole e sincero quello fra Allegri e Enrique, che magari pensava ai suoi giallorossi, forse chiedendosi se erano più rallegrati dalla sconfitta della Juve o rattristati dal suo trionfo. E infine quel bellissimo passare dei giocatori della Juve fra quelli del Barcellona disposti su due file a rendere l’onore delle armi. Finalmente il calcio che diventa sport. A Berlino, come a Cerfignano. I bambini ci guardano - ci insegnò Vittorio De Sica settant’anni fa - ma per fortuna non ci imitano.
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