mercoledì 5 luglio 2017
Il romanzo di un'esordiente diciassettenne, dal bel titolo La ragazza che pesava il tempo, con un bel quadro di Hopper in copertina (di Hopper non ci sono quadri brutti), incuriosisce assai, dunque prendiamo in mano l'opera prima di Sveva Graziotto (Santi Quaranta, pagine 160, euro 13,00) e leggiamo la prima frase: «Il mio vizio più grande è sempre stato quello di mangiarmi le unghie». Ecco, ci siamo. La solita ragazzina che racconta le sue irrilevanze. Ma bastano poche altre righe per capire che l'io parlante non è una ragazzina, ma un ragazzo: caspita, la giovanissima esordisce in psicologia maschile. E se si arriva fino a pagina 16, si viene a sapere che il ragazzo si chiama Brandon. Da pagina 11 già si sapeva che nel 1998 aveva ventitré anni e frequentava la University of Washington a Seattle. E brava. Così giovane, sembra sapersi destreggiare nei meccanismi narrativi. Bisogna leggere tutto.
Dunque: l'io narrante è un personaggio maschile, l'azione si svolge nel 1998, due anni prima che la scrittrice nascesse, a Seattle, dove probabilmente Sveva non è mai stata o magari ha solo frequentato qualche Erasmus transatlantico. Del resto di Seattle il romanzo non darà altri connotati se non che laggiù piove spesso. La cronologia è sottolineata da testi di canzoni d'epoca, tipo 'N Sync, ma è citata anche La vie en rose di Edith Piaf, che è del 1945, però proprio nel 1998 ricevette il Grammy Hall of fame Award che premia le canzoni di alto valore storico e qualitativo. Sveva si è documentata, ha studiato.
Questo Brandon è un imbranato, ha una madre che lo trascina in mostre d'arte con annessa asta di beneficenza, e lui la segue anche se di arte non sa e non vuol sapere nulla, ma vuol bene alla mamma che ha fatto tanti sacrifici per lui (premorto il padre) e gli garantisce agiatezza anche per via dell'eredità del nonno. Proprio a una mostra d'arte avviene il colpo di fulmine: Brandon s'imbatte nella bellissima Hollyanna, collega d'università, di due anni più giovane. Piccoletta, bellissima (giova ripeterlo) e imprevedibile. Lui le fa una corte maldestra, eppure lei ci sta e lo trascina in mostre e musei, come sa la madre di Brandon non fosse bastata. Holly (così vuol essere chiamata) si elettrizza davanti a quadri che Brandon trova insignificanti, scatta centinaia di fotografie con la polaroid, e a poco a poco anche lui comincia a guardare l'arte (se così si può dire) con gli occhi di lei. La storia va avanti per qualche mese, i due si vorrebbero addirittura sposare, ma improvvisamente Hollyanna scompare (c'è di mezzo anche lo stalking di un professore, senza conseguenze). Sconforto, depressione di Brandon, sgomento. Cinque anni dopo Brandon, trentenne, è sposato e padre di due figli ma il chiodo di Holly è sempre fisso nel suo cuore. Finché una misteriosa telefonata... Non possiamo raccontare il finale della storia, ci atteniamo alla metodologia narrativa.
La relazione tra Brandon e Hollyanna, benché universitari, è di tipo adolescenziale, in linea con l'età della scrittrice, il che conferisce una simpatica ingenuità ancorché irrealistica. La scomparsa di Hollyanna è narrata surrealisticamente: la ragazza, avida di vita, in gara col tempo, vuole correre più veloce dei secondi scanditi dall'orologio, li “pesa”, e finirà male.
Forse la missione di Holly era di far innamorare Brandon della vita di cui fino ad allora era stato solo spettatore, ma la correttezza dell'ormai marito e padre di famiglia resta insidiata dall'assillo memoriale di Holly.
Un esordio narrativo al quale avrebbe forse giovato un editing più severo per stemperare frasi e pensieri da «bellissimo tema in classe»: una prova, comunque, di tutto rispetto, a un passo dall'ammirazione.
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