giovedì 9 aprile 2020
Il bellissimo “Il mestiere delle armi” di Ermanno Olmi segna lo spartiacque della Storia in cui due differenti paradigmi dei conflitti tra popoli si sono susseguiti. Da un lato, quello della guerra come insieme di regole che stabilirono, prima dell'invenzione della polvere da sparo, il gioco violento della supremazia di una parte sull'altra (Girard, “La violenza e il sacro”), esercitato in un luogo “separato” (ancora, con Agamben, “separato” come “sacro”). Dall'altra parte, un sempre più raffinato esercizio di cancellazione e di occultamento di qualunque regola per sconfiggere se non annientare la parte avversa. La guerra ha dunque perso qualunque legittimazione diplomatica, avviene “altrove”, sull'unico “cielo” rimastoci (quello del traffico dei cacciabombardieri e dei droni) e sulla sua spettacolarizzazione tesa all'estremo. Le dinamiche sono sempre più implicate nel cuore stesso della vita (le “armi batteriologiche”) e proprio per questo del tutto indifferenti a chi viene colpito (donne, bambini, anziani). Il nuovo campo di battaglia è così, potenzialmente, il mondo intero, con propaggini al di fuori di esso (lo spazio) ma anche al suo interno (la detonazione del conflitto all'interno dell'individuo stesso nella figura del kamikaze). E qua, nell'assenza di ogni teleologia, resta accampato il mondo globale.
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