giovedì 26 aprile 2018
Non sempre c'è bisogno del capolavoro. Capita abbastanza spesso, al contrario, che un film di buon mestiere riesca a cogliere una questione in maniera talmente esatta da diventare proverbiale. È quello che succede con Il candidato, che a prima vista si presenta come onesto prodotto dell'artigianato hollywoodiano nella stagione tempestosa dei primi anni Settanta, con la contestazione sullo sfondo e il manipolo dei giovani autori – da Martin Scorsese a Steven Spielberg, per intendersi – che già si affaccia all'orizzonte. Alla regia troviamo Michael Ritchie, noto in seguito per una manciata di commedie, mentre la sceneggiatura porta la firma di Jeremy Larner, che proprio con Il candidato vinse un premio Oscar. Nomi rispettabili, ma ad attirare di più l'attenzione è senza dubbio il protagonista, un Robert Redford che, all'apice della carriera, inizia a diradare i ruoli da eroe romantico per imboccare la strada che lo porterà ad affermarsi come regista impegnato con una carriera alla quale appartengono, tra gli altri, Gente comune del 1980 e Leoni per agnelli del 2007.
Il punto di svolta non è difficile da individuare: si tratta di Tutti gli uomini del presidente, diretto nel 1976 da Alan J. Pakula. Qui Redford è al fianco di Dustin Hoffman nella ricostruzione di quello che, in attesa di conoscere gli esiti delle cronache più recenti, va considerato come il maggior scandalo nella storia politica degli Stati Uniti: il Watergate, portato alla luce dai reporter del Washington Post e consumatosi durante la campagna elettorale del 1972. L'anno è lo stesso in cui arriva nelle sale Il candidato, che è sì un racconto di finzione, ma talmente ben congegnato da risultare ancora oggi utile per orientarsi nei marosi della politica, e non soltanto della politica americana.
Il protagonista è Redford, dunque, nei panni di Bill McKay, un giovane e ambizioso avvocato californiano che si candida al Senato pur avendo pochissime speranze di vittoria. Fosse per lui, in effetti, non ci proverebbe nemmeno, ma a reclutarlo è uno specialista della comunicazione politica, Marvin Lucas (l'attore Peter Boyle), che decide di puntare tutto su questo possibile figlio d'arte. Il padre di Bill è infatti l'ex governatore John McKay (impersonato dal veterano Melvyn Douglas), e poi il ragazzo è idealista quanto basta e non difetta di bella presenza. In televisione viene che è una meraviglia e ha sempre la battuta pronta, rivoluzionaria e rassicurante nello stesso tempo.
Nonostante le sue qualità, è un perdente designato, ma proprio per questo può permettersi di dire quello che vuole e di impegnarsi in qualsiasi promessa, compresa quella di fare piazza pulita di corrotti e corruttori. Dovrebbe limitarsi a dare fastidio, invece inizia ad avere successo. Il suo slogan, "McKay the Better Way" (qualcosa come "con McKay è meglio"), viene ripetuto sempre più spesso e perfino una star del cinema come Natalie Wood è incuriosita dalla sua ascesa. Come potrebbe essere altrimenti, del resto? McKay parla ai lavoratori e si preoccupa dei poveri, annuncia giustizia per tutti e riscatto per ognuno. È schietto, diretto, sideralmente diverso dagli altri politici. Non è come loro, McKay. McKay è uno di noi. Proiezioni ed exit poll vengono ribaltati e dalle urne arriva il risultato in cui nessuno aveva veramente creduto. Il giovanotto ha stanato quella vecchia volpe del suo avversario, il posto a Washington è suo, i sostenitori si apprestano a una notte di festeggiamenti. Peccato che lui, il vincitore, non sia altrettanto di buon umore. Chiuso nella sua stanza d'albergo, guarda attonito i suoi collaboratori e pronuncia la battuta più famosa del film: «E adesso che facciamo?». A noi, spettatori italiani del 2018, viene spontaneo suggerire un giro di consultazioni.
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