mercoledì 21 marzo 2018
Lo scrittore ungherese, di origine ebraica, Imre Kertész, premio Nobel 2002, a quindici anni fu deportato ad Auschwitz e poi a Buchenwald. Liberato nel 1945 si dedicò al giornalismo e nel 1955 pubblicò il suo capolavoro, Essere senza destino, tradotto da Feltrinelli nel 1999. In seguito, Bompiani ha fatto conoscere al pubblico italiano altre opere, come Diario della galera e L'ultimo rifugio che, con il recentissimo Lo spettatore (Firenze-Milano, pagine 240, euro 20,00) compongono una trilogia diaristica.
Forte della sua esperienza, Kertész può permettersi di contestare la troppo celebre frase di Adorno secondo cui «scrivere poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie»: anzi, secondo Kertész, «creare arte da Auschwitz è la sfida più importante per qualunque artista, e qui penso sia a Beethoven che a Tolstoj, o a Rembrandt: sono sicuro che nessuno di loro sarebbe stato in grado di resistere a raccogliere la sfida, che avrebbe trovato il cimento in grado di santificare la cosa (Auschwitz), creando una forma eterna nello spirito dell'arte, per la gioia degli uomini colma di lutto». È quello che egli stesso ha fatto con Essere senza destino, e il brano citato lascia intuire la consapevolezza del proprio genio che, fra alti e bassi, permea le Annotazioni diaristiche dello Spettatore (1991-2001) nella limpida traduzione di Antonio Donato Sciacovelli.
«Tenere un diario – scrive Kertész – non è soltanto un dovere metafisico; in sostanza è importante che per determinate cose – e ancor più per le cose decisamente importanti – mi ricordi anche delle date». Peraltro nel diario ci sono poche date, che vengono utilizzate come scansioni per suddividere gli otto capitoli (se ho contato bene, dato che non c'è un indice). Dopo la visione del Vangelo secondo Matteo di Pasolini, lo scrittore annota: «Queste vicende sono accadute, è sicuro. Forse non è mai esistito quel Gesù di cui parlano Renani e gli storici. Ma l'uomo che diede il vino agli invitati alle nozze di Cana, lui è esistito, è certo. Non comprendere il mondo soltanto perché è incomprensibile, è un atteggiamento dilettantesco. Il mondo non lo comprendiamo perché non è questo il nostro compito, sulla Terra». E ancora: «Compiango sempre gli atei, non perché io sia in modo egregio un credente, anche se procuro di vivere in maniera di esser gradito a Dio, nel senso che ho rispetto della nostra ignoranza, della nostra fragilità, della nostra caducità, del nostro inconcepibile coraggio, l'audacia di vivere». Singolare e tragica questa definizione dell'arte: «Ha un valore soltanto quell'arte che distribuisce ferite; se inoltre queste ferite riesce anche a scaricarle subito sugli altri, a far diventare il dolore ancor più doloroso, più indimenticabile, con l'aiuto di un dolce stordimento, allora stiamo parlando di una grande arte».
Il diario contiene pagine dolcissime dedicate alla moglie, Albina, morta di cancro nel 1995. Una visita al cimitero con l'amica Md. suggerisce questa splendida frase: «Ho provato a riscaldare la pietra con il calore delle mie mani. Mi sono talmente colmato di lutto, del ricordo della vita passata con Albina e dell'amore nei confronti di Md., che ho passato tutta la giornata in uno stato di stordimento».
Molto severo e, a mio avviso, ingiusto, il giudizio su L'insostenibile leggerezza dell'essere di Kundera: «Uno dei libri più tristi che mi sia capitato tra le mani. L'autore scrive come un emigrante estremamente amareggiato, abilissimo e ben determinato, che con quest'opera desidera arricchirsi. Tra le righe leggiadre a volte si avverte distintamente un grave stridor di denti».
Tra gli scrittori amati, su tutti svetta Kafka insieme al grandissimo Sándor Márai, del quale è riportato un importante consiglio: «Avvicinati ogni giorno alla grandezza, non lasciar passare una sola giornata senza aver letto una riga di Tolstoj, senza aver ascoltato una musica grandiosa, visto una tela di un grande pittore, o almeno una sua riproduzione! Non dimenticare il sogno che ti ha generato!». Imre Kertész è morto a ottantasette anni, nel 2016.
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