venerdì 19 agosto 2016
«Mi chiamo Anderious Gorguees Oraha, sono iracheno, cattolico caldeo, nato a Nineveh, nel 1955, sposato con Shabo Dawood Jamila, anche lei nata a Nineveh. Abbiamo quattro figli. Marleene, nata a Baghdad nel 1986. Nel marzo 2013 si è laureata in economia aziendale e, da tre anni, è in cerca di un posto di lavoro. Morin, anche lui nato a Baghdad, nel 1988, ha frequentato il suo primo anno universitario in ingegneria metallurgica a Baghdad. Poi nel 2014 si è laureato in economia aziendale, qui in Italia. Nadia, nata a Baghdad nel 1990, quattro anni fa si è diplomata in ragioneria. Ha frequentato un corso professionale di marketing, e dopo un anno di tentativi falliti per trovare un lavoro, si è iscritta alla facoltà di scienze bancarie a Milano. Ultimo in linea, mio figlio Moris, nato a Baghdad nel 1995,si è diplomato in meccanica e, come tanti giovani della sua età, è in cerca di una occupazione. Perché il futuro deve essere loro.Nel 2007 ci siamo rifugiati in Italia. Nel 2008 ho ottenuto lo status di rifugiato politico. Siamo partiti da zero. Oggi faccio il consulente import-export con l'Iraq, intermediazione commerciale. È con questo lavoro che ho potuto mantenere la mia famiglia in questi anni faticosi, grazie sempre a nostro Signore. Il periodo più difficile, colmo di eventi, avventure e sventure indimenticabili e anche pericolose sono stati i cinque anni del mio lavoro di interprete e corrispondente di guerra al fianco dei giornalisti italiani inviati a Baghdad. Molte volte ho messo a repentaglio la mia stessa vita per garantire quella degli amici italiani. Prima erano le minacce degli sgherri dei servizi segreti di Saddam Hussein. Anche quando, in piena guerra nel 2003, ci fu il caso dei sette giornalisti italiani catturati a Bassora dai soldati del regime, considerati spie, e portati a Baghdad.La strage dei soldati italiani a Nassirya, novembre 2003, è stato, forse proprio per il mio legame affettivo con l'Italia, uno degli episodi più drammatici che ho vissuto direttamente, quando sono stato tra i primi ad arrivare sul posto e vedere con i miei occhi e trasmettere la notizie di quella orribile carneficina.Alla fine del 2006 fu ucciso un mio, un nostro, carissimo amico: Adnan Abo Zahrà, interprete e collaboratore per il settimanale "Panorama" e per il Tg3-Rai.Assassinato con tre colpi di pistola sulla soglia di casa sua. Adnan era iracheno musulmano sciita, ha lasciato una giovane moglie e una bambina di 5 anni. Anche lui aveva subito svariate minacce di morte, perché “traditore che collabora con gli occidentali”.Anch'io ho pagato un prezzo per avere collaborato con gli italiani, ma in più anche perché cristiano. Le milizie islamiste che hanno infestato il mio Iraq dopo la rovinosa operazione militare degli Stati Uniti d'America nel 2003, mi hanno concesso 24 ore per abbandonare tutto e la mia casa.Ero l'ultima persona che avrebbe voluto lasciare il suo Iraq. La mia terra, i miei antenati. Le lacrime, negli anni, si sono prosciugate. La speranza si è affievolita. Baghdad è sempre più lontana. Ma anche l'Italia, oggi, la sento distante. Sognavo potesse diventare la mia seconda patria. Ma ancora sono qui che aspetto il nostro futuro. Mi sveglio ogni mattina, senza più il sorriso, con la stessa domanda: dopo tutto quello che ho fatto per gli italiani in un Paese come l'Iraq in guerra, dopo i sacrifici affrontati per i miei figli per far completare loro gli studi e permettere loro un domani, nonostante un appello sottoscritto da molti amici giornalisti e indirizzato all'allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dopo la nostra totale integrazione nella società italiana, perché stiamo ancora aspettando di vederci riconosciuta la nostra cittadinanza italiana e un nuovo passaporto?».
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