mercoledì 24 agosto 2022
Un centinaio di versi quasi preterintenzionali, sgorgati nel 1964, consentono al poeta Yves Bonnefoy (1923-2016), ripresi quasi cinquant'anni dopo, una riflessione sull'idea (e la genesi) di racconto che assume un valore/sapore testamentario, essendo l'ultima sua opera, pubblicata in Francia nel 2016 e tradotta da Fabio Scotto per La Nave di Teseo nel 2021: La sciarpa rossa (pp. 240, euro 19). In quei versi che rievocano la Danae di Rembrandt nella pioggia d'oro («quella pioggia d'oro, scintillante, è ciò che attendo dalla poesia») si legge l'intenzione di distruggere certi taccuini d'appunti presi a vent'anni, l'indirizzo di un albergo di Tolosa, «lo spavento che nasce / da un passo udito in una casa vuota», e affiora come dal negativo di una foto in bianco e nero l'immagine di un uomo «lì piegato in avanti, [che] porta aperta da una spalla all'altra, una sciarpa rossa». Rielaborati anni dopo, quei versi riprendono l'indirizzo di quell'albergo di Tolosa e il poeta si ritrova in mano una borsa di carta brunastra che contiene una maschera della Nuova Guinea acquistata da un antiquario che adesso gli fa paura e corre a restituirla l'indomani. E «l'uomo che sta lì, che lì parla, e porta aperta da una spalla all'altra una sciarpa rossa». Gradualmente, con il poeta, scopriremo che l'uomo dalla sciarpa rossa è suo padre, anzi, che in certi momenti è il poeta stesso, perché quei versi lo inducono a fare i conti con la sua infanzia spaventata dai silenzi di suo padre operaio presso le ferrovie a Clermond-Ferrand, a Montluçon e poi a Tours. Quei silenzi non erano mancanza d'affetto, ma il mistero paterno di sentirsi inadeguato anche verso la moglie Hélène pur amata e contraccambiato. Perché in quei versi la ragazza che dice «voi, voi» e porge una sciarpa rossa è la madre, costretta a interrompere gli studi per una meningite a quattordici anni e un po' emarginata in famiglia, con la rivincita di prendere il diploma d'infermiera e, più tardi, il titolo magistrale che le consentirà il lavoro di maestra supplente. Questi ricordi, che s'intessono in racconto, sono localizzati in città occitane, Ambeyrac, Viazac, e soprattutto a Tolosa, la Tolosa di Guido Cavalcanti: «Vanne a Tolosa, ballatetta mia, / ed entra quetamente a la Dorata…», fino a «Questo cor mi fu morto / poi che 'n Tolosa fui». Bonnefoy amava molto l'Italia, non solo per Guido Cavalcanti. Scrive: «È proprio in questo spazio metafisico che mi sono sentito attratto fin dal primo giorno dalle civiltà succedutesi nella penisola italiana, oscure pratiche primitive, pessimista saggezza etrusca, ordine romano illuminato d'arte greca, cristianesimo»; con un riguardo speciale per Genova, città dell'anima. Il poeta ha modo anche di pagare il debito verso i suoi maestri, Max Ernst, Paul Valéry, e di spiegare il ruolo della maschera della Nuova Guinea. Di ricordo in ricordo, si compone un racconto che è densamente elaborato eppure semplice, lasciando intuire che cos'è o dovrebbe essere la letteratura.
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