domenica 18 luglio 2021
Passato il traguardo, grida: «Stand up, Giamaica». Alzati. Ha un Paese dietro da sollevare, mentre il mondo solleva lui. È già un leader politico, potrebbe diventarlo davvero. Per ora è un aggettivo. Boltesco. Impressionante. La tempesta perfetta. A cinque giorni dal via di Tokyo 2020, sappiamo già chi ci mancherà più di tutti: Usain Bolt. Non corre più, ha chiuso vincendo tanto a Rio 2016. Ma già quattro anni prima aveva spiegato a tutti chi è l'uomo più veloce della Terra. Lo ha fatto a Londra nell'edizione dei Giochi del 2012: tre ori, 200, 4x100 e conquistando il mondo in 9''63 sui 100, il secondo tempo di sempre, mentre il primo ovviamente è comunque suo. Cento metri di supremazia assoluta. Poi è solo show. Le scarpette d'oro in mano, il gesto dell'arco che è il suo marchio di fabbrica, selfie e bandiere giamaicane in uno stadio Olimpico impazzito per un atleta ultradimensionale, che va oltre lo sport e la nazionalità. Gli altri non ce la fanno, si spezzano se solo provano a stargli dietro. Personaggio, istrione, megalomane: Bolt è stato l'atletica, ora è soprattutto un rimpianto. Perché se crolla l'atletica, intesa come spettacolo, crolla la piramide su cui poggiano le altre discipline. E quello che è rimasto della loro capacità di coinvolgere. Bolt è stato il collante per tenere insieme il tutto. Garantiva i riflettori puntati addosso, aveva carisma e popolarità tali da tenere l'attenzione sulla crosta, anche se sotto scorre una lava infernale. Per questo serviva, per questo i Giochi faticheranno a dimostrare di poter fare a meno di lui.
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