mercoledì 7 agosto 2013
Un altro romanzo breve di Ginevra Bompiani, La neve (et al./Edizioni, pp. 108, euro 12), ancora di sentimenti complicati, personaggi che custodiscono un segreto con spazientito pudore. E ancora con qualcosa di sghembo, di artificioso, come un cesto di frutta iperrealista dentro un quadro astratto, o come un inserto astratto in un quadro figurativo. Sghembo, per esempio, è il titolo riferito a un'implausibile nevicata romana che induce Lea, la protagonista, a trasferirsi in casa della sorella e del cognato, perché il gelo ha guastato il riscaldamento nella sua abitazione da single, alta sui tetti. Anna, la sorella, sta scivolando in una quieta e allarmante demenza, il marito continua a volerle bene. La dottoressa ha spiegato a Lea che se smettesse di prendere tranquillanti e sonniferi sarebbe forse più infelice, ma più lucida. Lea si prende due giorni di riflessione per decidere, e intanto rivede in flashback due eventi di qualche anno prima. Fu un gesto di coraggio avviare con due amiche un negozio di scarpe confezionate non con pelli animali: ma la cosa si complicò quando casualmente una ragazza sarda, Adele, le fece vedere uno stivaletto in tenerissima pelle di agnello, confezionato artigianalmente da suo fratello: Lea andò in crisi, perché non aveva mai visto niente di più perfetto, ma passare a quel tipo di produzione significava rinunciare alle proprie convinzioni. Intanto si è però affezionata ad Adele e ne favorisce l'incontro con suo nipote Pietro, figlio di Anna, trentenne seduttivo. L'incontro avviene fin troppo, perché Adele si rivela più disinibita di quanto il lettore potesse supporre. Allora, basta scarpe: d'accordo con le riluttanti socie, Lea passa ai cappelli, assumendo una bravissima modista, la giovane Sabina, dato che né lei né Adele si intendono operativamente di cappelli. Sabina è bravissima, scrupolosa nell'orario, ma improvvisamente si licenzia: aspetta un bambino. Da chi? Ma da suo marito, regolarissimamente, anche se della sua vita privata non aveva mai fatto parola. Però anche Adele aspetta un bambino, non da Pietro, ma da un Gavino (sposato e con due figli) che cura le pecore del fratello in Sardegna. Lea si sente al centro di un intrigo di bugie: Adele ha mentito, Sabina ha taciuto, e anche Pietro ha nascosto la sua condizione gay di cui è stata informata da Adele. E tuttavia nascono due bei bambini, Viola da Sabina e Pietrino da Adele. Lea e le due socie ne sono contente, aiutano come possono. Del resto tutti, compreso Pietro, erano andati al porto a salutare il ritorno di Adele in Sardegna, gettando in aria, e quindi in mare, quei bellissimi e invendibili cappelli. Se Lea avesse letto Ezra Pound, avrebbe saputo che «l'errore sta nel non fatto,/ tutto nella diffidenza che ci fece esitare». La sua irresolutezza, il non saper cogliere l'occasione – fin dalla prima pagina non sa accorrere a prestare soccorso al motociclista investito da un'auto, eppure avrebbe voluto farlo – non dipende dagli antidepressivi e dai sonniferi, la causa è più profonda: si dispiace di trovarsi in un groviglio di bugie, dunque ha un'aspirazione alla verità, ma non va oltre. Occorre che l'aspirazione alla verità orienti l'agire morale, cioè la propensione a distinguere il bene dal male. Invece, l'orizzonte morale del racconto è singolarmente piatto: Lea accetta tutto, si adegua a tutto, quindi finisce per diventare complice degli sbandamenti di Adele e di Pietro, lungo un pendìo di indistinta mediocrità. La scelta, insomma, è pur sempre tra gli antidepressivi e la lucidità.
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