mercoledì 30 aprile 2014
La «Storia definitiva di "Neri" e "Gianna"» è stata scritta da Luciano Garibaldi nel capitolo così intitolato del suo libro La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci? (Ares, 2002). Da quelle pagine si apprende la tragedia orrenda dei due partigiani comunisti, attivi nella cattura di Benito Mussolini il 27 aprile 1945, che vennero poco dopo assassinati dai loro stessi compagni di partito. Mirella Serri, docente di Giornalismo e Letteratura all'università La Sapienza di Roma, aggiunge Un amore partigiano. Storia di Gianna e Neri, eroi scomodi della Resistenza (Longanesi, pp. 224, euro 16,40) alla bibliografia, pur vasta, su quella pagina insanguinata della Resistenza. Il libro è di scorrevole scrittura giornalistica, anche se con i frequenti flash back e con la mania di designare i molti personaggi a volte con il proprio nome e cognome, a volte con il nome di battaglia, risulta a tratti un romanzo po' confuso.Non abbiamo spazio per ricostruire tutta la raccapricciante vicenda. Atteniamoci al finale. Il 7 gennaio 1945 il «Capitano Neri» e «Gianna» vengono catturati dall'11ª Brigata nera, incarcerati a Como e crudelmente torturati. Lui ha 33 anni, il suo vero nome è Luigi Canali, è sposato, ha una figlia di pochi mesi. È tra i fondatori della 52ª Brigata d'assalto Garibaldi. Lei, Giuseppina Tiussi, si fa chiamare «Gianna» in memoria del fidanzato Gianni Alippi, antifascista torturato e fucilato il 30 agosto 1944 in via Tibaldi a Milano.«Neri» riesce a fuggire dal carcere e «Gianna» viene rilasciata, forse come esca per consentire ai fascisti di riacciuffare «Neri». Un improvvisato tribunale comunista decreta la condanna a morte per entrambi, accusando lui di aver pagato la fuga con la delazione, lei di aver fatto i nomi di altri compagni. In effetti «Gianna», dopo sevizie che non ho stomaco di raccontare, aveva dato gli indirizzi di covi partigiani milanesi, che però, a quanto ne sapeva, dovevano già essere stati abbandonati.La condanna a morte non viene eseguita perché i partigiani della Brigata Garibaldi hanno piena fiducia in «Neri» e lo riacclamano loro capo. «Gianna» è con lui. Fortunosamente è proprio il «Capitano Neri» a intercettare la colonna di automobili con Mussolini, la Petacci e i gerarchi fascisti, in fuga verso la Svizzera con il loro carico di denaro e gioielli che diventerà il famoso «oro di Dongo». «Neri» vorrebbe un regolare processo per i catturati, ma si adeguerà agli ordini dei vertici comunisti: il Duce e la Petacci verranno uccisi al mattino del 28 aprile 1945 in località Bonzanigo. I cadaveri saranno poi trasportati nel pomeriggio a Giulino di Mezzegra e rifucilati, in macabra messinscena, insieme ai gerarchi.«Neri» entra in conflitto con i dirigenti comunisti di Como e di Milano proprio per la destinazione dell'«oro di Dongo», di cui «Gianna» ha steso l'inventario. Fatto sta che la precedente condanna del tribunale comunista viene riesumata. «Neri» viene eliminato il 6 maggio 1945. «Gianna» scompare il 23 giugno, giorno del suo ventiduesimo compleanno. I corpi dei due amanti non sono mai stati ritrovati.Il partito comunista non ha mai riabilitato «Gianna» e «Neri», nonostante un timido tentativo del segretario Walter Veltroni nel 1999. I mandanti del duplice assassinio diventarono parlamentari comunisti, e sono onorati negli annali dell'Anpi (Associazione nazionale partigiani italiani, di osservanza comunista). Nel 1957 il processo che a Padova doveva far luce sull'«oro di Dongo» venne sospeso per il suicidio di un giurato e, scandalosamente, mai più ripreso. Solo nel 2002 la Giunta comunale di Como intesterà ai due partigiani la «Scalinata Gianna e Neri».Mirella Serri sorvola sul ruolo che nella truce vicenda ebbero i servizi segreti britannici, ai quali Luciano Garibaldi invece dà rilievo, e preferisce dipingere Claretta Petacci non come la donna innamorata che volle condividere la catastrofe del suo uomo, ma come una sorta di opportunista venuta in uggia allo stesso Duce. Nella postfazione al libro di Garibaldi, Massimo Caprara, già segretario personale di Togliatti, ha avvalorato l'ipotesi che l'«oro di Dongo» sia servito per la costruzione della sede romana del Pci, in via Botteghe Oscure.
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