mercoledì 18 febbraio 2004
L'altra notte, nell'albergo, mi sono irritato quando mi hanno costretto a dividere una stanza con un estraneo. Dopo che la sua lampada aveva riempito di fumo la camera e io, disperato, mi ero girato verso la parete, l'uomo ha spento il lume, si è inginocchiato di fianco al letto e ha pregato sottovoce a lungo, con impegno. Da quel momento la relazione fra noi è cambiata: non mi irritava più, anzi mi ispirava rispetto e benevolenza. Qualche volta è capitato anche a me, in giro per il mondo, di dovere condividere la stanza d'albergo con un'altra persona: si trattava di città remote e disagiate. Ebbene, pur conoscendo il mio "coinquilino", io non riuscivo chiudere occhio (e credo mi accadrebbe così anche oggi). La storia che il filosofo americano Ralph Waldo Emerson - fu anche poeta e pastore protestante - narra nel suo Diario
(1835) parte appunto da un'analoga sensazione di disagio, anzi di irritazione. Tra l'altro, l'ospite sembra essere anche sgradevole, ingombrante e poco incline alla socievolezza. Ma ecco che, sotto quell'apparenza un po' ispida e impacciata, si nasconde un segreto. La sua anima è sensibile e delicata, la sua religiosità intima e profonda. Vorrei proprio che riflettessimo su questo contrasto tra aspetto esteriore e interiorità. Bisogna condividere qualche momento con un altro per riuscire a varcarne le apparenze. La superficie non rende sempre conto di ciò che essa nasconde. In un altro Diario, datato anch'esso 1835, quello del poeta e drammaturgo tedesco Christian Friedrich Hebbel, si legge questa annotazione che potrebbe fungere da commento all'aneddoto di Emerson: «Non è tutto oro quel che luccica ma bisogna ricordare che neppure luccica tutto quel che è oro».
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