mercoledì 8 agosto 2012
Non nascondo una pregiudiziale simpatia per l'editrice «Fede e cultura» che svolge un'utile lavoro di divulgazione con scrupolo di ortodossia, talvolta con un eccesso di tradizionalismo. Mi aveva incuriosito e anche insospettito il titolo del recente volume di Roberto Dal Bosco Contro il buddismo (pp. 160, euro 15), e la lettura ha confermato i sospetti. Perché «contro»? Non che si debba essere a favore del buddismo, ma di fronte a un fenomeno così complesso ritengo che la volontà di «capire» dovrebbe precedere lo slancio di «denunciare». Invece l'autore (Vicenza 1978), che vive e lavora a Milano e si occupa di audiovisivi, non spiega i fondamenti dottrinali del buddismo e mette sotto quel vasto ombrello tutto l'intricato e verminoso sottobosco di sètte devianti che sono più che altro eresie del buddismo. Vengono elencate svariate aberrazioni con un procedimento che non convince: sarebbe come voler presentare il cristianesimo descrivendo le nefandezza per le quali fu condannato Gilles de Rais (che pure aveva combattuto a fianco di Giovanna d'Arco), oppure l'ebraismo dettagliando le pratiche incestuose del polacco Jacob Frank (1726-1791). Particolarmente preso di mira è il Dalai Lama, dietro il cui pacifismo politicamente corretto l'autore allude a «sacrifici e miti terribili» che gli aleggiano intorno, «così come a tutto il buddismo». Perfino l'invito del Dalai Lama a non convertirsi al buddismo lasciando la propria religione viene interpretato come «uno stratagemma di un grande piano di possessione. La preparazione del momento in cui nel corpo delle nazioni entrerà un'altra anima». La fonte principale di Dal Bosco è il testo dei coniugi Victor e Victoria Trimondi, autori di Der Schatten des Dalai Lama («L'ombra del Dalai Lama»), pubblicato a Düsseldorf nel 1999, in cui si sostiene che dietro il sorriso del Dalai Lama ci sarebbe la teoria e la pratica del tantrismo con le sue sfrenatezza: «Da fuori sposa la libertà religiosa e la pace ecumenica. Ma in contrasto, concentra il suo sistema rituale sul Kalachakra tantra, nel quale il paesaggio è dominato da fantasie distruttive, sogni di onnipotenza, desideri di conquista, scatti d'ira, manie piromaniche, spietatezza, odio, frenesia omicida e l'apocalisse». Ma se le conferenze oceaniche del Dalai Lama, sponsorizzate da Richard Gere e da altri divi hollywoodiani, fossero qualcosa di diverso da un passeggero fenomeno di costume, e coprissero macabre scelleratezza, il Dalai Lama sarebbe in galera come è accaduto a Sogyal Rinpoche, condannato in California nel 1992 per «abuso della posizione di interprete del buddismo tibetano per ottenere favori sessuali da studentesse». È lecito il sospetto su qualche posizione del Dalai Lama, ma per il tantrismo ci vorrebbe qualche prova in più. Nel libro c'è un passaggio significativo. A proposito del «panpsichismo buddista» che non farebbe differenza tra l'anima di un uomo e quella di una bestia, con l'istituzione nel Sud-Est asiatico di bordelli per accoppiamenti bestiali, l'autore scrive che «una pratica del genere ai tempi dell'Inquisizione veniva giustamente punita col rogo». Ecco, è quel «giustamente» che oggi stona un po' e che discrimina un'apologetica rivolta alla verità e alla conversione dell'interlocutore, dallo sbrigativo annientamento dell'infedele. Nella dichiarazione conciliare Nostra aetate leggiamo: «Nel buddismo, secondo le sue varie scuole, viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di liberazione perfetta o di pervenire allo stato di illuminazione suprema per mezzo dei propri sforzi e con l'aiuto venuto dall'alto». Subito dopo si ribadisce che la Chiesa «però annuncia, ed è tenuta ad annunciare incessantemente, il Cristo che è via, verità e vita».
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