venerdì 2 settembre 2016
Arrivammo a Juba, nell'allora Sudan equatoriale, portati da un aereo passeggeri "Boeing 737", cimelio degli anni Sessanta del Nocevento.Fuori era un normale aeromobile d'uso civile, di colore bianco, ma dentro avevano tolto i sedili, per stiparlo di casse di armamenti cinesi. Rifornimento per la guarnigione governativa sotto assedio. La sottile pattuglia di passeggeri che a Khartoum trovò, per modo di dire, un posto a bordo di quel volo, si dovette accontentare di accucciare le terga sulle munizioni e pregare ognuno il proprio dio a che il viaggio andasse a buon fine.Soprattutto l'atterraggio "tattico" che doveva essere per forza effettuato a spirale stretta, su un piano inclinato estremo e a rischio di scivolamento d'ala, quasi a fil di piombo sulla pista dell'aeroporto, onde evitare il più possibile i tiri dei missili terra-aria ad opera della guerriglia che da settimane teneva a tenaglia la città simbolo dell'agognata indipendenza del Sud del Sudan.Era una lotta che persisteva da molti anni. Affondava le sue ragioni ancor prima che il Sudan si affrancasse dal condominio anglo-egiziano; iniziò con le lance dalle lunghe lame usate per la caccia agli elefanti, e continuò con i kalashnikov.Era l'orgoglio africano, contro l'oppressione araba. Si moriva tanto e non solo per le conseguenze della guerra. Inondazioni, carestie, fame, malattie, malaria, banditismo, povertà uccidevano in egual misura. Ma del Sudan, allora, se ne parlava poco, era una storia che interessava a pochi, e solo ai bene informati di questioni di strategie geopetrolifere. Finalmente, poi, nel 2011, l'indipendenza è arrivata. Khartoum, il Nord arabo, e Juba, il Sud africano, siglano la pace e nasce un nuovo Stato: il Sud Sudan. Le mitraglie tacciono. Si costruiscono case. I bambini possono andare a scuola senza paura, i padri coltivano la terra o governano le mandrie di bestiame, senza timore di dover scappare, e le donne al ritmo dei loro canti e non a quello dei cannoni macinano sorgo e cereali nei mortai di pietra. Ci furono feste che durarono settimane, e le lacrime di lutto e di dolore si asciugavano nella speranza di un domani nuovo e libero dall'oppressione, dalla morte, dalle armi. È durato poco, il sogno. L'altro giorno, una lettera sulla scrivania. È stata scritta a Juba dal salesiano padre Giacomo "Jim" Comino, uno dei molti missionari che in quel lontano Paese, lui da 23 anni, hanno donato vita di uomini e missione di Chiesa.«La guerra nascosta alla maggior parte del mondo occidentale è scoppiata in maniera fragorosa. Il Sud Sudan è ripiombato nello sconforto e nella desolazione di uno scontro interno che lascia morti sul campo e profughi lungo le strade», scrive padre Jim.È di nuovo guerra, in Sud Sudan. Ma fratricida, questa volta. Tra tribù che fino a poco tempo prima governavano insieme: quella maggioritaria dei Dinka, e la minoritaria dei Nuer. Tuoni di cannone, combattimenti, brutali violenze su donne e bambini, fuggiaschi. Nuova distruzione, ed è tornato a mancare il cibo. E di nuovo il devastante silenzio su una guerra che non fa notizia.«Lo scontro fratricida sta facendo emergere i lati più oscuri dell'umanità – ci scrive Comino –. In questo scenario lo sconforto è tanto anche da parte della Chiesa che ha condannato senza appello la condotta dei leader politici, i veri responsabili di questo ennesimo sterminio. Ogni giorno sentiamo vicina la morte... Abbiamo bisogno di parole forti e di una aiuto concreto da parte della comunità internazionale». Come si fa a restare insensibili alle parole di quest'uomo e a un popolo rimasto solo? Così chiude il suo appello: «Darei volentieri questa vecchia vita di 77 anni per salvare anche un solo bimbo». Intanto padre Jim ogni giorno conta i chicchi di frumento rimasti pur garantire un pasto al giorno a 5 mila persone.
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