venerdì 10 febbraio 2017
In Caro diario, Nanni Moretti si rivolge a uno sconosciuto, durate una festa in un parco di Roma, e gli chiede: «Sa qual è il mio sogno?». Non è una scena molto abituale nella nostra quotidianità, ma il cinema, e l'arte in generale, servono anche a questo: a metterci davanti all'improbabile della vita, dinanzi a una manifestazione libera e dirompente che, in un gioco di specchi, la rivela con un'altra verità. Per la maggior parte del tempo custodiamo i nostri sogni come confessioni rare o rinviate, come un argomento sommerso destinato a orecchi molto selezionati, ben nascosto tra le parole che ci scambiamo gli uni con gli altri. Eppure, la domanda «sa qual è il mio sogno?» è umanissima, e dice tanto di noi. Se fossimo capaci di tenerne conto, di tornare a ripeterla nel corso del tempo, con semplicità, di rivolgerla a un numero maggiore di persone tra quelle che andiamo incontrando, forse le relazioni che generiamo non sarebbero, alla fine, tanto vane e superficiali. Nel film, il sogno di Moretti va seguito con un sorriso sulle labbra e un trasalimento in fondo al cuore. Lui lo spiega così: «Il mio sogno è sempre stato quello di saper ballare bene… Saper ballare! Invece alla fine mi riduco sempre a guardare. È anche bello, però è tutto un'altra cosa». Il rischio che sta nel non domandare a nessuno «sa qual è il mio sogno?» è che lo ignoriamo anche noi stessi.
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