martedì 31 marzo 2015
Ho accolto con stupore gli entusiastici festeggiamenti dedicati alla Ferrari di Vettel finalmente vincente e a Valentino Rossi eterno vincitore: l'ondata di disfattismo seguita al sofferto ma utilissimo pareggio della Nazionale in Bulgaria mi aveva fatto temere una inarrestabile involuzione dello sportivo amor patrio verso il catastrofismo che i tempi grami hanno dolorosamente potenziato. Per fortuna tutto quel rosso fiammeggiante (“La Rossa & Rossi” il titolo più diffuso) ha ampiamente compensato l'accoglienza grigia dedicata all'Azzurra. È almeno dai tempi di Fabbri e Valcareggi (il primo vittima di una Corea, l'altro rimosso nel '74 eppur vincitore dell'unico nostro Europeo, nel '68) che l'Italia pallonara è oggetto di polemiche, alle quali ho dato (spero civilmente) il mio contributo; ma è da Bearzot in poi, da un Mondiale vinto controcorrente, che la critica ha intinto la penna nel veleno, tanto che trovo a dir poco forzato - se non suggerito da sensi di colpa - il premio che annualmente una commissione di giornalisti dedica alla memoria del mio amico Enzo. Non basta, dunque, che l'Italietta di Prandelli, impietosamente affondata in Brasile, sia finita nelle mani di Antonio Conte che l'ha raccolta, rovesciata come un calzino e riportata al successo - mal che sia andata a un paio di pareggi - fino a sperare concretamente nella sua qualificazione europea: il risultato positivo ottenuto in brevissimo tempo non basta a strappare se non un applauso almeno un incoraggiamento per quel gruppo di ragazzi che hanno solo il difetto di non essere “top players”, forse esclusi quelli della Juve. Non basta neppure che il Conte illuso abbia rinunciato (per forza) ai suoi stage che avrebbero disturbato i lavori in corso, ovvero un campionato così ben gestito da registrare addirittura il fallimento di un protagonista d'eccellenza come il Parma. Eppure l'avevo detto, al Signor Intensità, che in Casa Italia avrebbe trovato fastidi e scontento, peraltro non immaginando che le prime stilettate gliele avrebbe riservate il suo vecchio club, la Juve che ha lasciato dopo averle conquistato tre scudetti. Né mi sarei aspettato la levata di scudi anti-oriundi, riforma socialmente e storicamente importante avviata dopo la sconfitta in Sudafrica: allora fu annunciato un significativo allargamento delle convocazioni arrivando, come la Grande Germania, ad utilizzare calciatori “esotici” con solide origini italiane e comunque previste dalle norme federali. Perché fu decisa quell'apertura? Semplicemente perché la sempre più pesante presenza di pedatori stranieri nel nostro campionato riduce da anni la crescita e la promozione di atleti nostrani. E mi ha fatto ridere la presa di posizione di Mancini che dà il suo contributo al malessere spesso schierando un'Inter con un solo italiano. Benvenuto Eder, dunque, ma con juicio: segnare addirittura il gol del pareggio a Sofia a qualcuno è apparso come una mossa polemica. Conte comunque è ancora imbattuto, fa miracoli con un gruppo che si sente miracolosamente Italiano ed esprime un gioco a volte brillante, altre sopportabile, accontentandosi di quel che passa il convento. Oggi a Torino è atteso al varco dell'Inghilterra di Hodgson, “nemica” tradizionale cui abbiamo preso le misure da tempo: l'ultima volta in Brasile con un gol di Balotelli. Non do consigli a Conte, ma il povero Mario - ora consolato dai tifosi del Liverpool - l'avrei convocato. Anche perché, nonostante quel che sostengono certi tifosi trinariciuti, è italiano. Un italiano nero, vero esempio di una integrazione più reclamizzata che realizzata.
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