domenica 5 maggio 2019
Sono passati 50 anni, troppo pochi per un sguardo che sappia mettere da parte passioni ed emozioni, che ancora si mescolano ai ricordi tramutandoli ora in idoli ora in incubi. Mezzo secolo è poco per la storia. E così il Sessantotto rimane ancora ostaggio di chi se ne serve per i propri fini politici, il pregiudizio oscura il giudizio e "sessantottino" è quasi sempre insulto sibilato a denti stretti, raramente è motivo di orgoglio, mai puro dato affidato alla storia. I sessantottini, poi, sono non tutti quelli che in qualche modo erano lì, da protagonisti o comprimari, ma solo la ristretta cerchia di quei leader che hanno fatto fortuna, assumendo i contorni deformi proprio di quel potere (economico, finanziario, accademico...) che ferocemente avevano contestato.
Allora del Sessantotto è meglio tacere, per non suscitare eccessi d'entusiasmo e ira funesta delle opposte schiere? No, qualcosa si può e perfino si deve dire. Ad esempio, ostinandoci ad assumere una prospettiva storica, si può cercare di andare alle origini. Se il Sessantotto fu una formidabile onda di tsunami planetaria, dove avvenne la prima scossa, il primo battito d'ali di farfalla che avrebbe scatenato l'uragano?
Bisogna tornare all'Università di Berkeley, in California, nel 1964. Ateneo solo per bianchi figli di ricchi, la futura classe dirigente degli Usa, dove il rettore Kerr poteva affermare: «L'università è una fabbrica e serve a riempire le teste vuote, per farle lavorare per il sistema». Questa era la società americana, eppure alcune cose stavano cambiando. Il movimento per l'emancipazione dei neri, ancora segregati e maltrattati e privi dei diritti civili negli stati del sud, compiva i primi passi. Vi partecipavano anche alcuni bianchi tra cui lo studente Jack Weinberg che il primo ottobre 1964, nel campus di Berkeley, sta raccogliendo fondi per il Core (Congress of Racial Equality), che si batte per il diritto al voto dei neri. Il rettore aveva avvisato: niente politica al campus. Per questo vi faceva stazionare dei poliziotti che afferrano Weinberg e lo caricano in auto. La cosa non piace ad altri studenti. Uno di loro si toglie le scarpe, educatamente, e sale sul tetto dell'auto dicendo: «Io vi chiedo di andarvene in silenzio e con dignità a casa».
Quello studente si chiama Mario Savio, ha 21 anni, ed è figlio di immigrati italiani, padre siciliano e madre veneta. Dopo 32 ore di trattativa Weinberg viene liberato ma è solo l'inizio, è la prima scossa. Savio è uno splendido oratore e non è attraversato da ansie di protagonismo. Dopo il raduno del 2 dicembre, con un suo celebre discorso, seguono 800 arresti. Savio si fa 120 giorni di galera. Contestando un'università per la quale «noi studenti siamo materia prima da trasformare in prodotto, comprato da industria, governo e clienti dell'università», Savio conclude: «Noi siamo esseri umani».
È cominciata la lunga, pacifica battaglia per la libertà di parola, di cui Savio fu campione indiscusso. «Per me – dirà – la libertà di parola è qualcosa che rappresenta la dignità stessa di ciò che è un essere umano. È la cosa che ci pone appena al di sotto degli angeli». La libertà di parola, come tutte le libertà, è qualcosa di cui avverti il pieno valore solo quando non ce l'hai, o te la tolgono. Meglio difenderla prima.
Savio non farà politica. Diventerà insegnante e preside e morirà, nell'ombra, ad appena 54 anni. Lui fu l'inizio di qualcosa che verrà dopo, in parte tradendo quelle origini. Perché si tolse le scarpe prima di salire sul tetto dell'auto? «Per non danneggiare una proprietà pubblica». Dedicato ai manifestanti di oggi, gli spaccatutto cialtroni, e traditori.
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