mercoledì 24 marzo 2010
Uno straordinario scorcio narrativo, con il giovane Telemaco e la madre Penelope che si recano ad Aiaie, l'isola di Circe, con l'urna delle ceneri di Odisseo, dà il tono a un testo per molti versi affascinante quale Il mito di Circe, firmato a quattro mani da Maurizio Bettini e Cristiana Franco (Einaudi, pp. 404, euro 28). A dire il vero, Bettini, filologo classico dell'Università di Siena, firma in proprio solo le 17 pagine del racconto iniziale, mentre tutto il resto del volume è a carico di Cristiana Franco, ricercatrice nella stessa università. Ma si capisce che il lavoro è stato fatto sotto la guida del maestro, il quale cura l'intera serie «Mythologica», sempre da Einaudi, che si è già occupata dei miti di Antigone, di Edipo, di Elena, di Narciso e delle Sirene. L'epiteto di «maga» con cui popolarmente Circe è nota, non è propriamente omerico. Il vate, infatti, la designa come deiné (temibile), dolóessa (ingannatrice), audéessa (profetessa): la magia, a quel tempo, era riservata ai ciarlatani, non ai sacerdoti che sapevano compiere prodigi, e Circe, figlia del Sole, era semidivina. Ma tant'è, la «maga Circe» è nota in tutto il mondo e la sua ambigua polivalenza non cessa di interrogarci. Trasforma in porci i compagni di Odisseo, il quale resiste agli incantesimi grazie all'antidoto (il môly) fornitogli da Hermes, e da maligna albergatrice diventa, per amore di Odisseo, benigna protettrice, svelandogli la via del ritorno a Itaca, previo passaggio negli Inferi per ascoltare le indicazioni di Tiresia. La cavalcata nella letteratura greca antica e fra gli autori romani «minori» coniuga erudizione e lirismo in un fitto labirinto di interpretazioni e di ipotesi che si moltiplicano sotto gli occhi dello stupefatto lettore. Il libro non raggiunge il sublime della Ricerca di Iside di Jurgis Baltrusaitis (Adelphi, 1985), ma non sfigura al paragone. Particolarmente intrigante il chiasmo di matrimoni fra Circe, Telemaco, Penelope e Telegono. Il soggiorno di Odisseo presso Circe avrebbe prodotto il figlio Telegono, il quale, giunto a Itaca alla ricerca del padre, lo ucciderà preterintenzionalmente con la lancia munita di un aculeo velenosissimo (fornito dalla stessa Circe). Telegono decise di riportare in Aiaie il cadavere del padre, e secondo alcuni venne accompagnato da Penelope e dal fratellastro Telemaco. Dall'unione tra Circe e Telemaco sarebbe nato Latino, mentre Italo sarebbe figlio di Penelope e Telegono. È questa una tradizione della genealogia mitica delle stirpi arcaiche della nostra penisola, mentre Virgilio preferirà appigliarsi all'altra leggenda che considera i Romani discendenti del troiano Enea. Plinio, del resto, designava Circe come Itala, tanto più che la patria della semidea di origine orientale finirà per essere identificata con il promontorio che ancor oggi si chiama Circeo, nei cui boschi qualcuno afferma di udire talvolta il canto seduttore della misteriosa e volubile maliarda. Il mito di Circe percorre tutta la storia della cultura occidentale, dall'antichità al Rinascimento e oltre, fino all'Ulysses di Joyce, e al racconto Professor Unratt di Heinrich Mann (fratello maggiore di Thomas), da cui Josef von Sternberg trasse il celebre film L'angelo azzurro, con Marlene Dietrich, devastante Lola Lola.
Non si finirebbe mai di lasciarsi smarrire nel dedalo delle interpretazioni che Maurizio Bettini e Cristiana Franco hanno collazionato da testi che occupano gli scaffali più alti (o più bassi) delle biblioteche. Peccato che proprio alla fine venga dato eccessivo credito alla provocazione di Plutarco di Cheronea (II secolo d.C.), che immagina un dialogo tra Odisseo e il portavoce dei suoi compagni trasformati in animali, i quali non avrebbero nessuna intenzione di ridiventare umani. L'interpretazione in chiave di omogeneità tra uomini e bestie, con forzatura del darwinismo più banale, è una caduta di stile che poteva essere utilmente economizzata.
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