mercoledì 28 agosto 2013
La matematica mi affascina fin dai tempi lontanissimi della mia tesi di laurea su "I processi stocastici e alcune loro applicazioni", per cui mi ha molto incuriosito il piccolo libro di Judith Povilus, docente di logica nell'Istituto universitario Sophia di Loppiano, intitolato Numeri e luce. Sul significato sapienziale della matematica (Città Nuova, pp. 164, euro 12). Per due terzi il libro è un excursus di storia del pensiero attraverso Pitagora, Platone, Aristotele, Agostino, Bonaventura, Tommaso, Nicola Cusano, fino alla svolta della scienza moderna. Per gli antichi, la matematica era vista all'interno di un sapere unitario e, senza confondere i piani metodologici, scienza, filosofia e teologia non erano considerate confliggenti. Agostino, per il quale sapienza e numero si sovrappongono, arriva a sostenere che le anime dei beati saranno infiammate «col lirismo della bellezza intelligibile fondate sul numero», essendo le loro intelligenze «capaci del numero alla lode di un sì grande Artefice». Con Galileo (1564-1642) e Newton (1642-1727) la prospettiva cambia. Da credenti, essi ritenevano che il grande libro della Natura, da indagare matematicamente, fosse pur sempre opera di un Creatore a cui la scienza s'inchinava lasciando il campo alla teologia. Anche Keplero (1571-1630) aveva affermato che «la geometria esisteva prima della Creazione. Essa è coeterna con la mente di Dio, e ha fornito a Dio un modello per la Creazione». E Leibniz (1646-1716) aggiungeva: «Cum Deus calculat, fit mundus» (quando Dio calcola, si fa il mondo). Con Cartesio (1596-1650) e Pascal (1623-1662), peraltro anch'essi credenti, ha inizio la frattura tra matematica e sapienza che caratterizzerà la cultura occidentale. Fino allora il metodo matematico era pur sempre scala sapienziale a Dio: poi la scienza si autonomizzò, facendo a meno dell'"ipotesi Dio". È solo in tempi recenti, con la scoperta delle geometrie non euclidee, della teoria della relatività e, soprattutto, con le ricerche di Cantor (1845-1918) e di Gödel (1906-1978), che il "mistero" ha ripreso dimora nel pensiero scientifico, perché proprio la matematica, fin dai numeri irrazionali, ha in sé un nucleo indimostrabile che è seme dell'infinito. Questi e altri ragionamenti servono a Povilus per verificare la singolare concordanza tra il racconto che Chiara Lubich ha fatto di alcune sue esperienze mistiche e le moderne acquisizioni matematiche. Niente paura: non si tratta di applicare il metodo matematico alla mistica, bensì, nella rigorosa distinzione dei gradi del sapere che abbiamo appreso da Maritain, di costatare suggestive coincidenze. Così la "rosa mistica" con cui Chiara descrive la condizione delle anime dei beati, «uniti intorno a un "perno" a formare un tutt'uno, per poi distinguersi di nuovo, ognuno portando in sé la realtà del tutto, dell'uno», secondo un processo di "trinitizzazione" (perché richiama la vita della Trinità), viene raccordato con la "scala di infiniti" teorizzata da Cantor. Inoltre le riflessioni di Chiara Lubich sullo spazio-tempo la portano a concludere che Gesù «anche se uno dei tanti uomini, è l'uomo, l'uno, in cui tutti gli uomini sono, se sono persi in Lui, perché di per sé stessi sono nulla». E ciò, afferma Povilus che a più riprese precisa di ispirarsi alle ricerche del grande matematico Ennio De Giorgi (1928-1996), rispecchia il continuum matematico studiato da Cantor e da altri scienziati. Concetti non facili, come si vede, ma è sempre valido il consiglio che Rilke rivolgeva a un giovane poeta: occorre la decisione di «attenersi al difficile».
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