martedì 14 giugno 2016
Erano sedici, e sono passati un giorno qualunque. Giovani, donne e bambini che prima di partire avevano venduto tutto, anche la vita. Era una mattina appena sfiorata dal vento e dal tempo. Nel Sahel i tempi sono immensi come il deserto e pazienti come un tramonto. Erano sedici, e almeno tre donne erano incinte al momento di partire. Secondo le statistiche delle Nazioni Unite, che hanno fatto dei conteggi una missione e una vocazione, sono sedici i migranti al giorno. E sedici è la media dei decessi quotidiani dal 2014 fino a oggi. Tutto questo porta alla cifra di diecimila silenzi che le zolle del mare hanno contato con attenzione. Non sapevano, i sedici, che quello che pure avevano sognato era il loro primo e l’ultimo viaggio. Pochi bagagli e un Dio che, secondo le attese, avrebbe dovuto portarli a destinazione. Dall’altra parte del mare di sabbia e di tradimenti a cui erano stati abituati dall’infanzia, in patria. Avevano commesso il reato di immaginare che altrove il mondo fosse differente. Rei del delitto di fare del viaggio la loro patria e della patria il loro viaggio.
L’altro silenzio è quello che i politici dei Paesi di partenza hanno scelto di tradire. Perché il loro, quello dei politici voglio dire, non è silenzio ma viltà. Saranno bene ricompensati da altri politici, quelli dei Paesi di (possibile) arrivo. Avranno milioni e milioni per costruire tombe e mausolei ai giovani partiti e mai tornati. Sedici tombe per ogni Paese del Sahel e degli altri senza nome. Costoro fanno tutto quanto è in loro potere perché se ne vadano da un’altra parte. E cercano di capire, con curiosità, quanto redditizia sarà la complicità con i becchini della storia. Che si trovano ai posti di comando, distribuiscono miliardi e consigli e soprattutto fingono di interessarsi alle vite umane. Vogliono essere lasciati tranquilli nei loro cimiteri invisibili. A cominciare dai grembi, ormai chiusi allo straniero, per arrivare alle politiche impossibili di uno stile di vita commerciabile. Il modello, questo, che non si tocca. Un simulacro di civiltà necrofila, che ricomincia da sedici. Il silenzio degli affaristi dell’altra parte del mare puzza di complicità. Sedici sacchi bianchi allineati.
Era l’ultima luna del mese, e hanno salutato prima di scomparirle dietro. Non era una carovana e neppure un banda clandestina. Giovani presi a caso dalla storia, donne decise a darsi un’altra identità, bambini che giocavano a nascondino col destino. E, nascosti tra le pieghe della follia, almeno tre in attesa nei ventri delle madri senza documenti. Erano sedici in tutto, e hanno lasciato dietro loro alcune scatolette vuote, pochi sacchi di plastica e un passaporto dimenticato per noncuranza. Si raccontavano del nuovo mondo e di quanto sarebbe stata diversa la loro vita. Una nuova casa per la famiglia, i soldi per mandare a scuola le sorelle e i fratelli minori, le immagini dell’altro mondo dove tutto va molto bene, e per rendersene conto bastava solo andare a vedere. Gli indirizzi della posta elettronica e i numeri telefonici degli amici che, una volta sul posto, non risponderanno mai. Nessuno che abbia guardato indietro, perché era ormai tardi per farlo. Sono partiti su un camion d’occasione e molta acqua per imbrogliare la sete del deserto durante il giorno e la notte.
Erano sedici, e sono passati in un giorno qualunque. Qualche settimana, o alcuni anni, dopo sono arrivati alla riva del mare d’acqua che pochi avevano visto prima. Il viaggio è durato fino allo spuntare del giorno e si è concluso in poche ore. Il loro silenzio è l’ultimo grido, che nessuno potrà fingere di non aver sentito.
Niamey, giugno 2016
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