giovedì 29 marzo 2018
Il ragazzo ha bisogno di crescere, di credere in sé stesso, di stare lontano dalle cattive compagnie. In breve, ha bisogno di una cintura da carpentiere completa di tutti gli attrezzi, dal martello ai cacciavite di diversa forma e misura. È il primo regalo che il burbero Walt Kowalski fa all'ancora sprovveduto Thao, il giovanissimo vicino di casa asiatico che una sera ha compiuto un goffo tentativo di rubargli l'auto. E che auto, poi: una Gran Torino del '72, motore rombante e carrozzeria impeccabile come se fosse appena uscita dalla fabbrica. Si poteva intitolare in tanti modi, il film che Clint Eastwood ha girato e interpretato nel 2008 (il protagonista, Walt, è tagliato su misura sulla sua fisicità, così come l'esordiente Bee Vang è perfetto nel ruolo di Thao). Perché proprio Gran Torino, allora?
Forse perché quell'automobile è in origine un privilegio, abbastanza modesto di per sé, ma nondimeno vistoso per la periferia slabbrata in cui si svolge la storia. Con il procedere del racconto, però, quello stesso privilegio si trasforma in dono, e il dono in eredità. In qualcosa che tiene viva la memoria e la presenza di chi non c'è più. Aggiungete che Walt è sì un reduce della guerra di Corea, ma è anzitutto un artigiano abilissimo. Tutto per lui - l'intelligenza, gli affetti, le poche parole dette e le molte consegnate al silenzio - passa dalla sapienza della mano che intaglia il legno o sistema un meccanismo traballante. Resta il suo pessimo carattere o, meglio, quello che del suo carattere è abituato a lasciar affiorare in superficie. C'è un altro uomo, sotto l'aspetto che riusciamo a scorgere. Ma per capirlo occorre un'altra sapienza, quella dello sguardo. A possedere questa dote è padre Janovich (l'attore Christopher Carley), che non si arrende davanti all'evidenza di quel vecchio taciturno e poco amabile perfino per i suoi stessi figli. Walt sta nascondendo qualcosa, infatti. La sua malattia, in primo luogo, e poi la disponibilità a dare quel che resta della propria vita per il bene degli altri. Magari di Thao e della sua famiglia di "musi gialli", perseguitati e umiliati dalla gang del posto.
Anche prima della rivelazione finale - quando Walt cade ucciso e, cadendo, spalanca le braccia nel gesto del Crocifisso - allo spettatore di Gran Torino viene messo a disposizione più di un segnale eloquente. La questione dell'automobile offerta in dono, per esempio, non ricorda quel brano della Lettera ai Filippesi in cui Paolo ci ricorda che Cristo non ritenne "un privilegio" il fatto di "essere come Dio"? E sarà davvero una coincidenza che, nei lunghi anni precedenti la predicazione pubblica, Gesù sia stato carpentiere e figlio di carpentiere? La Passione è stata portata spesso sullo schermo, in una continua alternanza fra rispetto del testo evangelico e libera reinvenzione e attualizzazione. Dalle inquadrature rigorose del Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini all'opera rock di Jesus Christ Superstar, tanto per fissare due estremi esemplari. Meno frequenti, ma non per questo meno importanti, le riscritture come questa di Gran Torino, dove la vicenda della Settimana Santa è più allusa che ripercorsa. Walt non è il Messia e non pretende di esserlo, è chiaro, eppure non può fare a meno di guardare al Calvario quando la sua esistenza giunge al "caso serio" del trovare e attribuire un senso. Walt sceglie di sacrificarsi, ma nello stesso tempo non sceglie veramente per chi sacrificarsi. Lui, che ha sempre voluto fare a modo suo, anche a costo di scontentare la propria famiglia, si accorge d'un tratto che la realtà è più grande di ogni aspettativa e preferibile a ogni pregiudizio. Accetta, allora: accoglie. Apre le braccia e lascia che accada quel che deve accadere.
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