mercoledì 10 marzo 2021
Tutti, credo, abbiamo incise delle date, dentro. Io ho questa: dieci di marzo. Il giorno in cui è morta lei, a quattordici anni. Mia madre mi aveva detto che mia sorella doveva morire. Ma io, otto anni, non ci avevo creduto: sono le cose che dicono i grandi in certi giorni, ho pensato, tipo "andremo in rovina", o "così finiamo alla fame". Parlano, poi non succede niente. Dunque, io non ci credevo.
Sono arrivata in ospedale quel pomeriggio, uscita da scuola, sono entrata con il mio grembiule bianco nella camera 124, di corsa, annunciando a voce alta: «Mamma, ho preso otto in…». E di colpo sono ammutolita. Sul letto vuoto c'era un grande mazzo di rose rosse. Seduta in un angolo mia madre, il volto come di pietra. Dopo un istante ferma, stordita, sono corsa ad abbracciarla, forte, più forte che potevo. Ma ho avvertito che lei non era più la stessa. Che era lontana, era andata molto lontano.
Fuori, tornando a casa con mio padre, c'era un tepore nuovo, e i peschi, che il giorno prima erano spogli, erano fioriti. Sbalordita, attonita, in silenzio mi domandavo: perché.
Tutta la vita è corsa, poi, attorno alla domanda di quel giorno. Il 10 marzo tornava, puntuale, e io ero ancora ferma a quel mattino. Solo da poco ho fatto la pace con quella domanda. Ma il 10 marzo ce l'ho indelebile dentro. Ognuno ha le sue date. E la vita intera, per domandare e cercare.
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