mercoledì 26 giugno 2013
Lorenzo Del Boca continua la sua brillante e gagliarda demistificazione della vulgata risorgimentale, iniziata nel 1998 con Maledetti Savoia (Piemme). Dopo Indietro Savoia! (Piemme), ora completa il trittico con L'Italia bugiarda (Piemme, pp. 252, euro 16,50). Un libro agile, prefato da Pierluigi Battista, che così presenta l'ex collega della Stampa: «Del Boca, e le pagine di questo libro lo dimostrano ancora una volta, non è un nostalgico del passato. Non è un secessionista a rovescio. Non è un sabotatore della Patria. È un giornalista curioso e irriverente che quando annusa la bugia di Stato mette mano alla penna (o al computer) e decide di smontarla, di dissezionarla, di farla a pezzi». Ben detto. E non si tratta soltanto di una rivisitazione storica: nomi e fatti del Risorgimento sono presi in considerazione per fare un discorso sull'oggi, e in questo senso il lavoro di Del Boca è analogo a quello compiuto da Ludovico Festa con Ascesa & declino della Seconda Repubblica (Ares), debitamente citato in bibliografia, ancorché dato per stampato a Roma anziché a Milano. Certo, la storiografia di Del Boca, che per tre mandati è stato presidente dell'Ordine dei giornalisti, è un lavoro su libri e giornali già scritti, non di ricerca diretta sulle fonti, per cui qualche dubbio può sorgere. Per fare un esempio minimo: a p. 36, per documentare la sobrietà dei presidenti della Repubblica d'antan, si legge: «All'epoca di Luigi Einaudi, il giornalista Indro Montanelli, al Quirinale per un'intervista, fu invitato a colazione e, alla fine del pasto, il presidente, con una mela in mano, gliene offrì un pezzo. "Facciamo a metà?"». Del Boca si affida a I menù del Quirinale, di Maurizio Campiverdi e Francesco Ricciardi (Accademia italiana della cucina), ma la citazione è errata. Il protagonista non era Indro Montanelli, bensì Ennio Flaiano, che raccontò l'episodio sul Corriere della sera il 18 agosto 1970; e non di una mela si trattava, bensì di una pera. Montanelli, che aveva una memoria "creativa", si appropriò dell'aneddoto traendo in inganno anche Ernesto Ferrero nel volume I migliori anni della nostra vita (Feltrinelli). Perfino Sergio Romano, nella sua rubrica sul Corriere, una volta diede a Montanelli quello che era di Flaiano. A pagina 56, tratteggiando «i primi anni Cinquanta del Novecento», Del Boca scrive: «La gente cantava: "Solo me ne vo per la città" ed era una frase liberatoria». In realtà, la canzone di Testoni e Sciorilli, interpretata da Nella Colombo (e quindi in originale al femminile) è del 1945, e, come spiega perfettamente Il grande dizionario della canzone italiana, di Dario Salvatori (Rizzoli), «più che una ricerca del perduto amore, è una metafora dello smarrimento postbellico in cui l'Italia era piombata. Così il ritorno alla vita trovò tutti un po' svuotati e in quel "solo me ne vo per la città" c'era chiaramente molto di più di un sentimento da recuperare». Altro che «una frase liberatoria». Mi sono soffermato su questi lievi particolari perché la serie di misfatti, ruberie, soprusi perpetrati da ministri risorgimentali, da giudici corrotti, burocrati, banchieri e parlamentari senza scrupoli, indica che la corruzione che ci sta soffocando viene da molto lontano, cioè da sempre. Ed è così terrificante che viene da domandarci se sarà mai possibile risalire, tanto è radicata nel malcostume. Per cui l'intento del sottotitolo di Del Boca: «Smascherare le menzogne della storia per diventare finalmente un Paese normale» appare utopicamente illuminista, quasi che bastasse conoscere la "verità", per automaticamente "agire bene". Ma quale Ercole saprà deviare un fiume Alfeo per ripulire le nostre stalle di Augia, intasate da centocinquant'anni di così documentato letame?
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI