domenica 17 febbraio 2019
Il risentimento è una malapianta che alligna giù dove il cuore è più nero e l'anima più buia. Dal risentimento non può nascere nulla di buono, perché nulla di buono più sgorgare dalle tenebre. Eppure il risentimento è vincente. Generazioni di leader hanno costruito la propria fortuna scovando e alimentando il risentimento di così tanti individui da farlo diventare un risentimento sociale e nazionale; la storia, che molti si ostinano a ignorare sfoggiando una spocchia superlativa, insegna che sempre un potere fondato sulla malapianta marcisce, si sgretola e lascia una putredine da cui però può spuntare altro risentimento con le sue nuove piccole malapiante che altri alimenteranno dando vita a ulteriori fragili fortune.
Il risentimento nasce dalla consapevolezza di aver subito qualche ingiustizia, un torto imperdonabile, uno sgarbo a cui pensare e ripensare, facendolo diventare il centro dei propri pensieri e della propria vita. Gli tengono compagnia i suoi aspri sinonimi: rancore, astio, acredine, acrimonia, livore. Nietzsche lo definì «passione atroce». Per lo scrittore Ian McEwan è «una forma di rabbia contenuta, una rabbia che si fa cronica e perdura nel tempo, e può essere fredda ma anche esplodere nella violenza». Se ne parla da secoli, del risentimento, e dovremmo sapere tutto di lui; dovremmo almeno saperne abbastanza per evitarlo, non incoraggiandolo, perché si sa come va a finire: veleno, puro veleno a cui si abbeverano singoli individui e popoli interi. Una frase famosa, attribuita a Nelson Mandela (ma forse ha origini ben più remote), ne rivela l'assurdità: «Nutrire del risentimento è come bere del veleno e aspettarsi che l'altra persona soffra e muoia».
Il risentimento appaga e dà assuefazione, a tal punto qualsiasi sentimento mite, di compassione e amore, viene bollato con disprezzo come "buonismo". Il risentimento è illogico, ma quanti scossoni sono stati assestati alle vite individuali e di interi popoli da fattori illogici e irrazionali? Noi italiani non siamo da meno. Abbiamo una vita soddisfacente, decisamente migliore di quella dei nostri nonni e bisnonni che patirono guerra, distruzione, malattie, fame. Abbiamo cibo da buttare, case riscaldate e dotate di servizi, elettrodomestici a iosa, automobili, accesso a cure e istruzione; possiamo pensare ed esprimerci liberamente; eppure molti di noi covano nel cuore un ghigno feroce che affiora sul viso. Risentimento verso i "poteri forti", l'Europa, le banche ingorde, gli immigrati... I malati di risentimento, spiace dirlo, sono brutti, perché ciò che coltiviamo nell'anima affiora sempre. Se un tempo era dissimulato, oggi il risentimento appaga e ripaga. Se ben organizzato, procura voti e potere. Diciamolo: è di moda.
Bisognerebbe rileggere quanto Gianfranco Ravasi scriveva quindici anni fa nel suo Mattutino proprio qui su "Avvenire": «Nulla sulla terra consuma un uomo più rapidamente che la passione atroce del risentimento». Ravasi ci metteva in guardia: è una "passione", sia pure "atroce". Il risentimento avvolge i suoi adoratori in una danza macabra tanto appagante quanto distruttiva. Annota un ex ammalato: «Il risentimento è come cercare di premere l'acceleratore di un'auto incagliata nel fango. Non fai che affondare sempre di più».
L'antidoto al veleno c'è e si chiama oblio, "saper dimenticare". Ci vorrebbe forse, per curare il nostro Paese, una pastorale della dimenticanza e della memoria mite, che cominci dalle parole di uno che in vita ebbe infiniti motivi di covare risentimento, Tommaso Moro: «Gli uomini, se qualcuno fa loro un brutto tiro, lo scrivono sul marmo; ma se qualcuno usa loro un favore, lo scrivono sulla sabbia».
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